Una vita di corsa per pochi spiccioli

«La giornata iniziava con l’ambiente infernale del magazzino Dpd di Giubiasco. Alle sei eravamo tutti lì. C’eravamo noi, i trentacinque corrieri suddivisi fra i tre padroncini subappaltori di Dpd, attorniati dai loro capetti la cui unica funzione è quella di spronare noi corrieri a correre, correre, senza fermarci mai. Spronare non è la parola giusta. Ad insultarci, denigrarci affinché fossimo sempre più veloci, perché fruttassimo loro sempre di più. Lo sfogo era a cascata, dal padroncino al capetto, dal capetto ai corrieri, dal corriere fisso a quello ingaggiato a ore. L’aria era densa di aggressività. La stanchezza faceva sì che ci si odiava l’uno con l’altro, senza una vera ragione. Due ore d’inferno quotidiane a caricare i pacchi nel furgone pronto per partire con le 150 o più consegne di quel giorno. Ai piani alti, la direzione del magazzino, i soli alle dipendenze dirette della Dpd. “I vostri problemi non mi riguardano” rispondeva a noi corrieri il direttore di allora (poi sostituito). “Parlo solo coi padroncini, gli unici con cui abbiamo un contratto”».


Il sistema Dpd vissuto dall’interno. È grazie alla testimonianza di Tommaso*, ex dipendente, se possiamo  raccontarlo. È la visione soggettiva di una persona, ma che coincide con altre testimonianze raccolte. Un racconto prezioso per comprendere le ripercussioni sui lavoratori del sistema Dpd, fondato sullo sfruttamento dei corrieri in subappalto. Stando alla documentata denuncia di Unia, un sistema che consente all’azienda francese di risparmiare quasi un terzo dei costi sulle spalle dei corrieri. Meno costi, prezzi più bassi ai clienti. Una concorrenza distorta che porterà presto o tardi le aziende concorrenti a doversi adeguare al sistema Dpd, trascinando nel girone infernale le condizioni dei lavoratori dell’intero settore (già oggi non allegre).


Tommaso prosegue il suo racconto: «Usciti dal magazzino, le cose non miglioravano granché. Perlomeno cessavano le grida dei vari capetti. Al loro posto, ad urlarti c’era il capetto virtuale. Toccava allo scanner Dpd spronarti, non mollarti mai. Con quello strumento, ti controllano costantemente. Le manovre, il tempo di consegna, le segnalazioni dei clienti in tempo reale e se ti vedono in ritardo, ti chiamano dagli uffici. Nessuna pausa, nessun rallentamento era concesso. Una mano sul volante, l’altra col panino. Questa era la pausa pranzo. Non c’era tempo nemmeno per i bisogni fisiologici. Posteggiare, andare in un bar, ordinare e bere un caffè per poter usufruire del bagno, era impensabile. Accumulavi troppo ritardo. Fortunatamente, non ho mai sofferto di problemi intestinali. Qualche volta però, confesso di aver dovuto ricorrere alla bottiglietta per urinare». Proprio come nelle scene iniziali del film di Ken Loach, “Sorry we missed you”, dove il corriere più esperto consegna una bottiglia al nuovo arrivato. «Ti servirà». Persone costrette a vivere alla stregua delle bestie.

 

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Un sistema infernale, impostato sulla messa in concorrenza di lavoratore contro lavoratore, senza pietà, nell’illusione di far parte di una squadra dove il migliore sarebbe stato premiato. Springer, così chiamati a Dpd i lavoratori con contratto a ore, contro altri springer o contro i fissi.


Una concorrenza sintetizzata nel premio del migliore corriere di sovietica memoria. Aleksej Stachanov, minatore glorificato dal regime sovietico per aver ripetutamente battuto il record di tonnellate di carbone estratto in un turno di lavoro. Stando a Wikipedia, nel suo primo record di produttività, Aleksej Stachanov raccolse 102 tonnellate di carbone in 5 ore e 45 minuti. Chissà quanti pacchetti avrebbe consegnato oggi.


A Dpd invece, ogni mese viene premiato il corriere che fa più “stop”, le fermate di consegna, gratificato con qualche centinaio di franchi, leggermente meno al secondo e terzo classificato. Stimoli danarosi per arrotondare una paga da fisso di 3.500 franchi lordi. Come springer anche peggio. «In dodici mesi, solo una volta sono arrivato a quella cifra».
Stando a Tommaso, lo springer in realtà era retribuito a cottimo, mascherato da paga oraria nella busta paga. Due franchi a consegna.

 

«Le ore passate a caricare il furgone, non erano retribuite. E se non potevi consegnare perché il cliente non era presente, perdevi quei soldi. E se nella tua costante corsa alla guida inevitabilmente ti capitava di danneggiare il furgone, altri soldi venivano dedotti dalla paga».

 

Le giornate poi diventavano lunghe poiché, dopo le consegne, c’erano ancora i ritiri da fare. «Finito il giro delle consegne, dovevi aspettare qualche ora per passare nelle aziende a ritirare dei pacchi. Poi la corsa ricominciava. Anche perché non vedevi l’ora di finire e andare finalmente a casa dopo undici o dodici ore di lavoro». Dalle buste paga, si vede che il testimone racconta il vero. Ci sono mesi, soprattutto quelli prima delle festività natalizie, da 190 a 200 ore di lavoro. «E calcola che molte ore mancano. Venivo pagato a cottimo» insiste Tommaso.


Condizioni di lavoro dalle inevitabili conseguenze sulla salute fisica e psichica. «Ho perso dieci chili, ho sofferto di attacchi d’ansia e depressione. A casa, ero diventato irascibile per un nonnulla. Scatti di rabbia, non fisicamente violenti, ma che ricadevano sull’incolpevole moglie e sui figli. Quando ho smesso di far quel lavoro, ho chiesto scusa. Ho dato un’unica giustificazione: non ero io. Quel lavoro mi aveva cambiato».


Periodo lockdown, Black Friday e poi Natale. Un anno da incubo il 2020 per i corrieri di consegne dei pacchi comodamente ordinati dal cliente a colpi di click. «È stato un anno estenuante, senza pausa o giorni di ferie. Ma pure quando le cose si erano calmate dopo Natale, se chiedevi con largo anticipo di poter usufruire di qualche giorno di vacanza, ti rispondevano di sì per poi negarteli giusto prima di partire. So di colleghi che hanno perso dei soldi, costretti dal padroncino a disdire all’ultimo minuto. “Se vai, non torni” era la minaccia».


Vietato pure ammalarsi o infortunarsi. «Ho visto un collega venire al lavoro col tutore alla gamba. Non potendo guidare, affiancava uno assunto temporaneamente per spiegargli i tragitti del suo giro».


Finisce qui il racconto testimonianza dall’interno del sistema Dpd. Altro vi sarebbe, ma quanto descritto può bastare. Va precisato che nel frattempo qualche cambiamento nelle condizioni di lavoro vi è stato. L’autorganizzazione dei lavoratori sostenuti da Unia, qualche effetto l’ha sortito. Nonostante l’impresa si rifiuti di trattare e di riconoscere il sindacato, dei correttivi li ha dovuti apportare. Oggi vi è una pausa pranzo da 45 minuti e la giornata dei corrieri non inizia più alle sei, ma alle sette.

 

Resta insoluta la radice del problema. Finché i corrieri con la divisa col logo aziendale al volante di furgoni con l’insegna dell’impresa e guidati dagli algoritmi gestiti dall’azienda non saranno dipendenti diretti Dpd, lo sfruttamento organizzato sul subappalto si riproporrà appena allentata la presa.


In conclusione, le ragioni di Tommaso: «Ho deciso di raccontare la mia esperienza nella speranza che serva a cambiare la situazione per chi lavora in Dpd oggi e per chi verrà dopo. Quella non è vita, è sfruttamento».

* nome di fantasia

Pubblicato il

02.12.2021 09:47
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