Un problema di potere (d’acquisto)

Si superano, con regolarità quasi sistematica, i primati di capitalizzazione borsistica, di ineguaglianza sociale, di temperature climatiche, di prestazioni sanitarie, tra di loro legati.


Lo SMI (Swiss Market Index) è il principale indicatore azionario svizzero e raggruppa i 20 più importanti valori del mercato elvetico, calcolato tenendo conto della capitalizzazione (fluttuante) di quei valori. In un anno ha “guadagnato” più del 15 per cento (in cinque anni quasi il 50 per cento). Insomma, gli azionisti, che sono i possessori del capitale, possono sorridere. Quotate agenzie internazionali ritengono che quest’anno i dividendi versati agli azionisti dovrebbero superare del 18 per cento il loro livello-primato di precrisi, alimentati ovviamente dai profitti-primato delle imprese. Manterranno una traiettoria ascendente i dividendi di due settori: tecnologia e salute.


Constatando tutto questo anche il più disattento avverte qualcosa che stride. E cioè: crisi generalizzata, ma qualcuno accumula più del solito; straordinarie iniezioni di capitale-denaro da parte di Stati e Banche centrali per rassicurare e attivare l’economia, ma buona parte di quel foraggiamento risulta finito in mangiatoie finanziarie e borsistiche; piagnistei sui guadagni (profitti) inabissatisi, ma poi dividendi in forte aumento; capitale (borsistico) evidentemente molto più remunerato del fattore lavoro (costo da reprimere per ottenere maggiori profitti); lavoro che torna protagonista, ma come imputato maggiore della spinta inflazionistica (in parole più spicce: se si pretendono salari più elevati, aumenteranno i prezzi e la disoccupazione); i settori che risultano finanziariamente molto  arricchenti, sono proprio quelli implicati nelle  attuali crisi: quella del surriscaldamento climatico (tecnologia, produzione e consumi enormi di energia), quella pandemica (scelta tra salute ed economia).


Dentro tutto questo c’è un problema di potere. Vediamolo sotto l’aspetto più immediato, più pratico: il “potere d’acquisto”, suggerito da due studi recenti con scelte politiche che si impongono. L’uno americano (di John Plassard, specialista in investimenti) che dimostra come il potere d’acquisto di 100 dollari al corso del 1913 oggi vale 3,47 dollari. Il potere d’acquisto di una moneta evolve nel senso inverso dell’indice dei prezzi al consumo. Per rovesciare la correlazione negativa, dimostra Plassard, l’unico mezzo è l’aumento dei salari. Conclusione adottata, politicamente, dal presidente Biden.

 

L’altro studio è della Banca Mondiale: il potere d’acquisto di 100 franchi svizzeri del 1961 è sceso a 24,42 franchi attualmente. In altre parole, un’economia domestica svizzera deve avere oggi a disposizione 409,52 franchi per acquistare lo stesso paniere di prodotti che nel 1961 acquistava con 100 franchi. Se scendiamo a un altro confronto, tenendo conto degli aumenti salariali dal 1993 (data in cui si è cambiato il metodo di rilevarli),  ci vogliono oggi 100 franchi per acquistare ciò che nel 1993 acquistavamo con 85,89 franchi.


Qualcuno può annoiarsi con questi confronti o ritenerli ormai roba di lana caprina o imperfetti perché non tengono conto di altre circostanze o di prodotti resi comunque accessibili a tutti grazie a prezzi via via ridottisi.

 

Non si può però negare in essi una evidenza: la continua sopravvalutazione del fattore capitale, con tutte le conseguenze che ha comportato, rilevate anche dai primati posti all’inizio, e la conseguente svalutazione del fattore lavoro o dell’unico potere che ha il lavoratore.

Pubblicato il

20.01.2022 14:06
Silvano Toppi