Il 25 aprile 1974 Celeste Caeiro era una giovane operaia che lavorava in un ristorante di Lisbona, il Sir. Il locale festeggiava quel giorno il primo anno di attività e il gestore aveva comprato per l’occasione garofani rossi da regalare alle signore. Celeste arrivò presto sul luogo di lavoro, ma trovò i colleghi e il proprietario sulla porta. Quel giorno non ci sarebbe stato alcun lavoro: il ristorante non apriva perché era in atto un golpe militare. Nessuno sapeva però cosa stesse succedendo esattamente. Nella notte Radio Renascença aveva trasmesso la canzone Grândola, Vila Morena di Zeca Afonso, canzone simbolo della rivolta, come segnale concordato per l’insurrezione. I militari scontenti della dittatura, molti dei quali provenienti dagli strati più poveri della popolazione, volevano rovesciare il governo di Marcello Caetano, successore del dittatore António Salazar. Celeste, tornando a casa, incontrò i carri armati dei rivoluzionari. Avvicinandosi a uno dei cingolati, chiese cosa stesse succedendo, e un soldato le spiegò la situazione. Il militare le chiese anche una sigaretta, ma la donna non ne aveva. Così lei gli regalò l’unica cosa che aveva con sé: un garofano. Il soldato accettò e mise il fiore nella canna del fucile. Celeste distribuì i garofani anche agli altri soldati e altre persone imitarono il suo gesto. Quei soldati furono immortalati da macchine fotografiche e cineprese. Così nacque il nome di una rivoluzione che fece soltanto quattro morti e cambiò il Portogallo per sempre.

 

UN SINDACATO LUSOFONO

Per raccogliere testimonianze dirette e indirette sul significato della rivoluzione non è stato necessario andare molto lontano. Unia conta oltre 26.000 iscritti di origine portoghese e molti segretari sindacali sono nati e cresciuti in Portogallo. Tutte le testimonianze raccontano di un periodo dittatoriale, iniziato negli anni Venti e consolidatosi nei primi anni Trenta, contraddistinto da povertà, arretratezza e mancanza di libertà politiche e sindacali: la militante Alexandrina Farinha ha vissuto da bambina sotto dittatura e ricorda «un Paese sottosviluppato e non libero dove giornali, mass-media, scuole erano completamente controllati dal governo. La vera attività sindacale era possibile soltanto in clandestinità. Chi osava criticare rischiava di essere portato via dalle forze governative. Questo è quello che probabilmente è accaduto a mio zio, sparito senza lasciare più tracce». Ana Pica, segretaria sindacale e testimone diretta della rivoluzione, ricorda la sua infanzia nella regione “rossa” dell’Alentejo: «Per sfamarci mio padre era costretto a contrabbandare merce dalla Spagna, mentre per alcuni miei compagni di scuola il pranzo della mensa era l’unico vero e proprio pasto della giornata». L’estrema povertà è uno dei tratti caratteristici di tutti i racconti. I genitori di Luis Pereira, impiegato nella logistica e socio Unia, «hanno sofferto per la mancanza di libertà, ma anche per la fame», mentre il padre di Sonia Oliveira, segretaria sindacale, «è stato costretto come tanti alla vita da stagionale in Francia per potersi mantenere». Per Marilia Mendes, segretaria nazionale per la migrazione, «nel Portogallo di Salazar l’austerità era un programma ideologico che affamava gli strati più poveri. La Rivoluzione non ha coinciso soltanto con l’inizio della democrazia, ma anche con l’introduzione di un welfare moderno per tutte e tutti».


LE COLONIE

La Rivoluzione dei Garofani è stata d’importanza capitale anche per le colonie portoghesi in Africa. Il 25 aprile del 1974 ha significato per loro indipendenza. Il regime condusse diverse guerre in Angola, Guinea portoghese e Mozambico tra il 1961 e il 1974 contro una serie di movimenti indipendentisti africani supportati da Urss, Cina e Cuba. Secondo João Pascoal, sindacalista portoghese, «le guerre coloniali hanno posto le basi per il malcontento all’interno dell’esercito: i giovani delle classi più povere erano obbligati ad arruolarsi per una causa che non era sentita. La loro assenza impoveriva ulteriormente il Paese». António dos Santos Pinto, pensionato e socio Unia di origini angolane, ricorda il razzismo di regime nelle colonie: «Nell’Angola coloniale esisteva una gerarchia ben definita: sopra tutti c’erano i bianchi, a cui erano concessi privilegi e diritti, poi venivano i meticci e, infine, sul gradino più basso, i neri. Tra noi neri c’erano poi i cosiddetti assimilati e gli indigeni. Questi ultimi erano trattati al pari di schiavi. Io ero considerato un assimilato e questo mi permise di ottenere la cittadinanza. Ero però costretto a parlare solo portoghese, dovevo adeguarmi alla cultura europea e aderire alla religione cattolica. Quando alla fine degli anni Sessanta riuscii a trasferirmi in Portogallo ero costantemente spiato e pedinato dalla polizia. Per noi africani era vietato riunirci». Pinto, che nonostante il clima repressivo aveva creato un gruppo resistente, fu costretto a rifugiarsi in Francia quando il rettore della sua università voleva costringerlo a leggere un discorso sull’appartenenza dell’Angola al Portogallo. Pinto, che ormai da decenni vive in Svizzera, ci tiene anche a sottolineare il contributo del movimento anticoloniale alla rivoluzione democratica: «Dopo 15 anni di guerra, l’Angola ha ottenuto l’indipendenza l’11 novembre 1975. Senza la resistenza anticoloniale probabilmente non ci sarebbe stata alcuna Rivoluzione dei Garofani». E Angela Tavares, segretaria sindacale di origini capoverdiane, lo ribadisce: «Mia madre fu messa nella prigione per detenuti politici di Tarrafal, una sorta di campo di concentramento, soltanto perché si era espressa contro il regime. Riuscì a scappare a Lisbona e lì diede il suo contributo alla Rivoluzione. Il 25 aprile di 50 anni fa si ritrovò in strada a festeggiare con la popolazione e i soldati insorti. La Rivoluzione per lei ha significato davvero libertà».


Pubblicato il 

25.04.24
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