Il lavoro domestico e di cura (dei figli e dei familiari bisognosi) è da sempre e ancora oggi affidato alle donne, un lavoro invisibile che non viene riconosciuto, non dà alcun diritto, non è retribuito e non viene valorizzato, ma semplicemente è un lavoro che viene dato per scontato, quasi facesse parte del Dna di ogni donna. Uno squilibrio evidente nell’impiego del tempo dedicato al lavoro domestico e di cura che ha ripercussioni sulla possibilità di molte donne di fare scelte relative alla propria vita su un piano paritario rispetto agli uomini e che si ripercuote anche sulla salute. Un lavoro invisibile che, secondo diversi studi, lascia infatti in molte un senso d’insoddisfazione della propria vita e delle proprie relazioni, rendendo più inclini alle malattie legate allo stress. Anche se oggigiorno sempre più uomini partecipano alle faccende domestiche e si occupano dei figli, le donne portano ancora il peso della gestione della casa, indipendentemente dal fatto che lavorino più o meno del partner. Sono loro in effetti a ricordarsi di prendere gli appuntamenti dal pediatra, che vanno ai colloqui con gli insegnanti, che sanno cosa c’è in frigorifero e in dispensa e che pensano a cosa preparare per pranzo e per cena. E anche se a volte delegano, spesso è solo su richiesta esplicita, come se fosse scontato che siano loro a farlo. Questo crea un sovraccarico mentale non indifferente, perché anche se è un’altra persona ad occuparsi fisicamente della questione, tutto l’aspetto organizzativo pesa comunque sulle spalle della donna. Oltre a questi aspetti, vi sono situazioni nelle quali la donna svolge un vero e proprio lavoro nel senso classico del termine, ma siccome lo svolge nell’ambito di un’azienda di famiglia, non percepisce nessun salario e perciò, risultando come “senza attività lucrativa”, non beneficia di alcuna copertura sociale, un problema che si rende evidente soprattutto in caso di divorzio o vedovanza, ma anche al momento di andare in pensione quando, non avendo versato i contributi, la donna si ritrova con una rendita minima. Un esempio classico di situazioni come questa sono le donne contadine, che lavorano a fianco dei loro compagni o mariti in azienda, ma risultano casalinghe e quindi senza contratto e senza salario. Come ci spiega Feliciana Giussani, già presidente dell’Associazione donne contadine ticinesi: «In una situazione di questo tipo, finché c’è armonia tutto va bene, ma se i rapporti tra marito e moglie non sono più buoni, la donna rischia che non le vengano riconosciuti i suoi diritti. Ne ho viste diverse ritrovarsi senza nulla e dover ricorrere all’assistenza dopo una separazione. Come Associazione consigliamo assolutamente di annunciarsi presso le assicurazioni sociali e dichiarare al fisco il proprio apporto finanziario di lavoro. Abbiamo a disposizione il volume “Donna contadina, consapevolmente”, una pubblicazione unica in Svizzera che spiega i diritti e i doveri delle donne e degli uomini attivi nel settore agricolo. Una situazione più complessa di altre professioni per questo intreccio famiglia-casa-lavoro». Anche se il numero di donne contadine che versa il proprio contributo all’Avs è in aumento, a livello svizzero i dati sono ancora allarmanti: 3/4 delle contadine non hanno una copertura sociale. Senza contratto e senza stipendio, queste donne sono considerate inattive professionalmente, e questo nonostante svolgano una buona parte dei lavori in azienda e a casa. Con conseguenze sia sul loro futuro (rendita Avs minima) che sul loro presente, e le rende meno indipendenti. Infatti, per una donna contadina divorziare significa perdere tutto: l’occupazione primaria, la casa, e anche tutto il patrimonio aziendale che resta al marito, e spesso anche la custodia dei figli. Situazione che spinge alcune donne a decidere di non divorziare, nonostante vivano in una condizione di disagio quotidiano con il proprio consorte. Non a caso, storicamente la percentuale di divorzi nelle famiglie contadine è sempre stata più bassa, anche se oggi sta raggiungendo la media svizzera del 50%. In agricoltura, quasi sempre, c’è un solo proprietario, che di solito è l’uomo, e quindi l’intero patrimonio aziendale è nelle sue mani, anche dopo il divorzio. Una situazione legata a una Legge che regola il diritto sui terreni dei contadini. Secondo Christine Bühler, presidente dell’Unione svizzera delle donne contadine e rurali, la questione da risolvere è il salario per le donne che lavorano nell’azienda di famiglia, un messaggio però ancora difficile da far passare, sia a livello politico che nella vita di tutti i giorni. Una proposta è stata avanzata in tal senso nel quadro della Politica Agricola PA22+, con la richiesta di collegare la previdenza sociale ai pagamenti diretti, ma fatica a raccogliere consensi in un settore dove il dibattito sull’uguaglianza si gioca ancora ampiamente su luoghi comuni e tradizioni, dove il maschilismo è ancora molto presente e le donne stesse faticano a prendere coscienza dei propri diritti, come conferma Feliciana Giussani: «Fatichiamo ancora a far capire alle giovani che si devono tutelare in tal senso: è comprensibile perché quando nasce una coppia c’è l’amore e non si vuol pensare che questo possa finire, ma le conseguenze possono essere gravi». Situazione testata con mano in occasione dell’ultima Assemblea delle delegate dell’Associazione donne contadine ticinesi giovedì 21 febbraio, quando a prendere la parola è stato il presidente dell’Unione contadini ticinesi, Roberto Aerni, che si è detto scettico riguardo all’imposizione di un salario per le donne che lavorano nell’azienda agricola di famiglia, spiegando di non capirne l’utilità (presa di posizione che ha scatenato l’ira delle presenti).
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