I commenti dei media occidentali alle elezioni legislative del 22 luglio ci hanno restituito un'immagine monolitica del paese: il dibattito tra laicità e islamismo sembra essere l'unica posta in gioco dello scenario politico turco. Le corrispondenze in occasione della recente elezione presidenziale non sono state da meno. Si tratta di una traduzione semplicistica e veloce del cliché che vuole la Turchia come il ponte tra Oriente e Occidente. L'eco internazionale che ebbe la questione curda non sembra avere modificato e arricchito la nostra visione. La Turchia è un paese che non ha ancora il coraggio di parlare apertamente di alcuni problemi scottanti: il riconoscimento delle minoranze, l'impoverimento di una parte della popolazione e soprattutto un'offerta elettorale che lascia un ristretto margine di manovra ai cittadini. L'Anatolia sud-orientale costituisce un'eccezionale e stupefacente miscela di questi fattori: la forte presenza di curdi e cristiani, il ricordo del genocidio degli armeni nella testa dei più anziani, la frontiera con la Siria e l'Iraq e la massiccia presenza dell'esercito ne fanno una regione privilegiata per una reale comprensione delle sfide della Turchia moderna.

Il furgoncino che da Urfa ci porta a Midyat sobbalza sulla strada dissestata. L'aria è rovente e i passeggeri si asciugano il sudore continuamente. Il paesaggio è brullo e desertico. I minareti di recente costruzione brillano per la luce solare. «Dieci anni fa se ne vedevano la metà di questi minareti», ci dice Burhan, un passeggero di origine curda, attento a non farsi sentire dall'imam seduto alla destra del conducente. Durante il suo mandato il governo degli islamici moderati di Erdogan ha intrapreso la costruzione di molte moschee in tutto il paese. Anche villaggi di piccole dimensioni dispongono di minareti che all'ora della preghiera divengono potenti megafoni. Un'inversione di marcia rispetto all'epoca in cui la presenza del governo centrale si concretizzava con statue di Kemal Atatürk o scuole pubbliche. Pure i centri abitati dagli alevi, particolare corrente dello sciismo che rappresenta circa il 20 per cento della popolazione, sono stati coinvolti da questa iniziativa che hanno vissuto come una vera e propria intrusione sunnita. Gli esponenti di questa comunità chiedono ospedali e soprattutto tolleranza nei loro confronti. Fisso nella loro mente è un episodio di violenza avvenuto nel 1995 a Sivas, quando la folla inferocita appiccò il fuoco ad un edificio che ospitava un'assemblea di intellettuali alevi. Nell'incendio morirono 37 persone ma i responsabili furono condannati a pene irrisorie. I giudici sostennero che ci fu provocazione da parte degli intellettuali.
Un villaggio disabitato si erge alla nostra destra. Qui sembra che il governo non abbia voluto far brillare la luce del profeta. Si tratta di un paese un tempo abitato dagli yezidi, comunità curda non musulmana la cui religione prevede il culto di lucifero. Da sempre vittime di discriminazioni – come confermano anche i recenti attentati in Iraq –, gli yezidi sono ormai immigrati in Europa. I boschi circostanti sono stati dati alle fiamme.
Il furgoncino si ferma ad un posto di blocco. I soldati che ci controllano i documenti non sono giovani della leva: hanno i capelli grigi e parlano perfettamente il curdo. Si tratta di quegli uomini che hanno accettato l'offerta del governo turco e si sono uniti all'esercito nella lotta contro il Pkk. In cambio di un centinaio di marchi e di un fucile, hanno aiutato l'esercito regolare a stanare i guerriglieri dai loro introvabili nascondigli. «Se non avessero accettato – dice Burhan –, il governo li avrebbe sgomberati dai loro villaggi insieme a donne e bambini». Ci spiega che da alcuni sono considerati dei traditori che hanno ucciso dei fratelli, ma la maggior parte della popolazione mostra comprensione.
Nell'abitacolo c'è anche Adnan, l'unico passeggero che non chiacchiera rumorosamente con il vicino e se ne sta in silenzio nel suo angolo. Proviamo a parlargli in curdo ma ci risponde in turco. Tutto chiaro: è un sottufficiale dell'esercito che sta andando a completare il suo servizio in oriente. «Non vedo l'ora che mi trasferiscano nei pressi di Istanbul, mia madre piange continuamente perché teme mi possa succedere qualcosa in questa zona dimenticata da Dio». Il periodo più spaventoso per un giovane turco cresciuto in città è la leva obbligatoria in Oriente: la lista delle reclute uccise dai ribelli curdi è lunghissima. «Qui fa caldissimo d'estate, le caserme sono ubicate lontane dai centri abitati e i ragazzi sono spesso in preda alla noia o all'angoscia». Anche se il numero di soldati uccisi è diminuito insieme alla "normalizzazione" dei rapporti coi curdi, la paura delle madri persiste. Nel viaggio che da Istanbul ci ha portati nell'Anatolia sud-orientale abbiamo incontrato un ufficiale di polizia che partiva con la sua famiglia alla volta di Diyarbakir. Un distinto signore turco in lacrime non poteva che attirare la nostra attenzione. «Sono finite le vacanze estive e ci tocca ritornare dove presto servizio. I miei figli sono tristi perché a scuola si sentono esclusi in mezzo a tanti bambini curdi e mia moglie non è abituata al caldo rovente dell'Oriente». Aspetta la pensione per poter rientrare ad Istanbul.
Giungiamo finalmente a Midyat. Un tempo florida cittadina di commercianti e artigiani cristiani di lingua araba, oggi è una città sovrappopolata dove orribili costruzioni di cemento contrastano con il disegno originale del nucleo di pietra. Grossi lucchetti chiudono i portoni delle chiese. Gli anziani cristiani di questo villaggio raccontano che Midyat divenne tristemente celebre durante il genocidio degli armeni per la crudeltà di un generale turco che, si dice, bruciò uno ad uno i sarti cristiani ed armeni della città nel tannur, il forno per la cottura del pane. Dopo essersi fatto confezionare abiti e tappeti di magnifica fattura.
Ripartiamo in fretta da questa città. Sappiamo che la comunità cristiana ha conservato quasi intatte le sue tradizioni in un gruppo di villaggi lungo la strada che da Midyat porta al confine con la Siria. Nel cortile della chiesa si parla di politica. Quale scelta per i membri della comunità cristiana? I repubblicani dell'esercito (da sempre considerati responsabili delle persecuzioni nei loro confronti) o gli islamici (che non si sono certo opposti alle persecuzioni)? Ibrahim, settantenne, ci mette in guardia nei confronti dello spauracchio dell'Islam: «Quelli che oggi criticano Erdogan in nome del laicismo, cioè i militari, sono gli stessi che impediscono ai cristiani di fare carriera nell'esercito». La roccaforte della Turchia laica ha sempre escluso i non musulmani, ci dicono. Un altro signore anziano ci racconta le discriminazioni vissute durante il suo servizio: «C'era un tenente che mi minacciava continuamente: ti obbligherò alla circoncisione un giorno, infedele. Una notte sono scappato dalla caserma perché mi aveva promesso che l'indomani sarei stato trasferito in ospedale per l'operazione». In questo villaggio laici e islamici sono due gruppi simili che lottano per il potere. Tutto qui.
Capire le ragioni della rielezione di Erdogan è davvero difficile. I media occidentali hanno avanzato l'ipotesi economica: un paese in ripresa, una moneta rivalutata, … Ma si fatica a crederci, quando un litro di benzina costa l'equivalente di 2 franchi e 25 centesimi. «La maggior parte della popolazione in Turchia va avanti a tè, pane e olive. La ripresa conta solo per i ricchi», precisa il proprietario di uno spaccio alimentare a Midyat. I prezzi sono davvero esorbitanti: un chilo di riso per 4 franchi, e non siamo in una grande città. Il risultato uscito dalle urne ha tutta l'aria di essere figlio dell'impossibilità di scegliere. I curdi, divisi, si sono fatti sedurre dal sentimento di unione veicolato dalla matrice islamica dell'Akp, il partito del primo ministro. La delegazione composta da ventidue deputati indipendenti curdi non può fare granché di fronte alla maggioranza dell'Akp, cui spesso si sommano i voti dei nazionalisti. E l'accoglienza che è stata loro riservata dai commentatori è stata a dir poco fredda: Emin Colasan del quotidiano Hürriyet ha espresso la sua opinione dicendo «ventidue terroristi sono entrati nel nostro Parlamento».
Alcuni giorni dopo siamo su un autobus diretti ad Istanbul. Il viaggio sarà più lungo del solito: è il giorno della partenza per la leva e il nostro mezzo si ferma in ogni villaggio a raccogliere i giovani che presto saranno in grigioverde. Tutti gli abitanti escono sulla strada a salutare i loro ragazzi. Madri curde piangono, memori delle botte che i loro mariti presero anni prima durante il loro servizio. Sevizie religiose per i cristiani e gli armeni, sevizie etnico-nazionaliste per i curdi. Imboscate per le giovani guardie turche. Il dramma della Turchia sembra racchiuso in questo spaventoso mosaico che è il servizio militare. Un dramma non riducibile alle opposizione partitiche o alle finte questioni principio, come una first lady con il velo.

Pubblicato il 

07.09.07

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