Cure di qualità significa molto di più che mantenere un corpo in vita. È quanto è stato ribadito oggi a Berna nel corso di una conferenza stampa in cui è stato presentato lo studio avanguardistico voluto da Unia, in collaborazione con la Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI), per comprendere le origini dell’attuale crisi del settore sanitario, che registra un impressionante abbandono di curanti, e soprattutto individuare la pista per uscire dall’emergenza ormai pure sociale.

 

Lo sappiamo, lo stato di salute del sistema sanitario in Svizzera è preoccupante. Non perché la medicina non sia all’altezza, ma perché il settore delle cure non ha le risorse necessarie per garantire un’assistenza di qualità. È stato lampante durante il Covid, ma la situazione non è cambiata di una virgola. Dopo le parole ci vogliono i fatti e, mentre si aspetta che la Confederazione attui le misure per cure infermieristiche forti votate dalla popolazione nel 2021, Unia ha deciso di agire. Primo punto capire dove sta il problema per bloccare l’emorragia che porta i curanti ad abbandonare una professione di cui la società nel suo insieme ha bisogno come il pane.

 

Il sindacato ha unito le forze con la SUPSI e ha avviato nel 2021 un progetto di ricerca che, guidato dal professor Nicolas Pons-Vignon, ha posto al centro dell’indagine proprio i caregiver, di cui oggi è stato presentato il primo bilancio. «Il nostro studio ha dimostrato che le difficoltà nel settore dell’assistenza, la cui punta dell’iceberg è la crisi del personale, hanno radici profonde da ricercarsi nel modo in cui il lavoro è organizzato» ha sottolineato Pons-Vignon, professore in Trasformazione del lavoro e innovazione sociale.

 

Per dirla in altre parole, dallo studio è risultato che il sistema sanguina, e fa perdere in media 300 professionisti al mese, a causa di un’organizzazione del lavoro che ricorda la catena di montaggio. Il ricercatore ha evidenziato come dalle discussioni con il personale sia emersa l’esistenza di un circolo vizioso dato dalla «ristrutturazione del processo lavorativo attorno a una sequenza di compiti predefiniti. Ciò è legato alla struttura di finanziamento che è stata implementata dal governo per limitare la crescita dei costi».

 

Con l’attuale sistema di finanziamento, le cure sono diventate sempre più razionalizzate e condensate: il tempo concesso per alcuni compiti è troppo breve, con conseguente riduzione degli indennizzi da parte delle compagnie delle casse malati e degli enti pubblici. «Dal punto di vista dei partecipanti allo studio, il finanziamento delle cure è assolutamente inadeguato. Inoltre, il sostegno sociale e il lavoro relazionale non sono sufficientemente riconosciuti come parte essenziale delle cure» lamenta Pons-Vignon.

 

Un’intensificazione del lavoro, basata su obiettivi “produttivi”, che diventa fonte di grande sofferenza sia per i dipendenti che per i pazienti. Quello che è successo nel sistema sanitario è stata l’introduzione del modello tayloristico dell’orario di lavoro, che proviene dalla fabbrica ed è pensato per eliminare tutti gli ostacoli e gli eventi imprevisti. C’è un però: siamo all’interno di ospedali e di case anziani, con persone vulnerabili, per cui l’urgenza è una costante. E i curanti non possono dire, a chi davanti a loro sta male, «mi dispiace, mi restano solo quattro minuti di tempo».

 

Gli operatori che hanno aderito alle discussioni di gruppo sono stati unanimi: il lavoro relazionale è il fondamento per cure di qualità – perché come è stato detto da un partecipante: «Una buona assistenza non consiste solo nel mantenere in vita un corpo».
I turni e l’organizzazione rendono molto difficile stabilire relazioni per comprendere i bisogni dei residenti e genera nei curanti frustrazione.

La ricerca della Supsi, presentata oggi alla stampa svizzera, dimostra come l’organizzazione nel mondo sanitario derivi dal concetto industriale, che mette in primo piano l’efficienza e l’aumento della produttività, totalmente in contrasto con la logica delle cure.

Come uscirne? Per Enrico Borelli, co-responsabile del ramo cure di Unia, «l’assistenza di qualità e la sicurezza delle cure per gli anziani devono essere considerate una sfida sociale e una priorità politica. Una sfida all’interno della quale devono essere coinvolti in prima persona i curanti per definire l’organizzazione del lavoro».

Borelli ricorda che secondo l’Ufficio federale di statistica, entro il 2040 il numero di persone over 65 anni aumenterà del 52%; quelle di età superiore agli 80 anni dell’88%, fatto che comporterà il bisogno di disporre di 54mila posti letto in più. Un aumento degli anziani che comporterà anche la necessità di avere personale qualificato: sempre entro il 2040 si stimano in ulteriori 35mila i posti di lavoro necessari nel ramo delle cure: «I costi derivanti dal cambiamento demografico devono essere ripartiti equamente tra la società: meno attraverso i contributi pro capite e più attraverso la partecipazione pubblica».

Siamo una società destinata a diventare sempre più vecchia, e che ha diritto a vivere degnamente anche questa fase della vita: è il momento di prenderne coscienza e consolidare un settore necessario. Per questo Unia apre il dibattito pubblico: nelle condizioni attuali, con personale allo stremo, non solo le condizioni di lavoro dei dipendenti non sono più garantite, ma neppure la sicurezza dei pazienti: «Una buona assistenza sanitaria è un diritto inalienabile per ogni cittadino» rimarca Borelli.

 

Via, dunque, a un dibattito serio, che coinvolga l’intera società e lo porti all’attenzione della politica. Unia sta elaborando un “Manifesto per cure di qualità” sulla base dello studio e ad agosto organizzerà un simposio con altre organizzazioni.

 

Pubblicato il 

23.02.24
Nessun articolo correlato