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C'è una donna dietro il velo
di
Gianfranco Helbling
In Francia s’è riacceso il dibattito sul cosiddetto “velo islamico” nelle scuole pubbliche. Il culmine s’è avuto martedì, quando l’Assemblea nazionale francese ha votato a stragrande maggioranza una legge che mette al bando dalle scuole pubbliche il velo islamico e tutti i simboli religiosi ostentati. Il Senato comincerà ad esaminare la legge il 3 marzo, ma la sua approvazione definitiva appare ormai scontata. Questa nuova legge è figlia di un episodio tutto sommato minore accaduto lo scorso autunno. La direzione della scuola di un villaggio di 480 abitanti, Avant-lès-Marcilly, nell’Aube, aveva deciso che non potesse essere ammessa a lezione una ragazzina di otto anni se questa si ostinava a voler portare un velo particolarmente severo, che copre tutta la parte superiore del corpo lasciando libero soltanto l’ovale del viso. Dalla fine degli anni ’80 quello del “velo islamico” è un dibattito che regolarmente riaccende gli animi nella scuola e nella società francesi. Da una parte vi sono i fautori dell’assoluta laicità della scuola pubblica, un valore che in Francia è quasi una fede: secondo questa visione laicista dev’essere vietato portare a scuola qualsiasi segno d’identificazione con una religione specifica, e questo divieto vale tanto per l’istituzione in sé (in particolare per i docenti) quanto per gli allievi che la frequentano. Dall’altra parte v’è chi teme un ripiegamento comunitario di chi dalla scuola pubblica si sente rifiutato: l’identità di gruppo, che diventa un bisogno molto sentito nelle comunità di immigrati, finirebbe allora per prevalere sulla missione integrativa della scuola pubblica. Il dibattito in Francia ha assunto toni estremi proprio perché la largamente diffusa posizione laicista è di per sé estrema ed ha finito col diventare una nuova religione. E questo benché da 15 anni vi siano sentenze del Consiglio di Stato (la più alta corte amministrativa francese) che sanciscono il diritto delle allieve di fede islamica di portare il velo in classe a determinate condizioni (nessun intralcio all’attività didattica, divieto di un uso ostentativo per fare del proselitismo, nessun pericolo p.es. nelle lezioni di educazione fisica o di laboratorio). Ora la nuova legge spazza tutta questa giurisprudenza, che era equilibrata ed aveva il merito di riconoscere che il velo islamico in quanto tale non è strumento di proselitismo, ma che tutto dipende dall’uso che se ne fa. In questi ormai interminabili dibattiti del tutto assenti sono state le ragazze e le donne musulmane. Finora infatti si è quasi sempre fatta una ponderazione di due interessi contrapposti che poco rispondono ai veri bisogni del soggetto stesso delle decisioni, ossia l’allieva: da un lato la libertà religiosa della ragazza che molto spesso finisce con l’identificarsi nel diritto del padre di imporle la sua religione, dall’altra la laicità dello Stato e quindi della scuola pubblica. Anche la nuova legge che si sta votando in Francia è figlia di questo grave errore di prospettiva. Nel caso di Avant-lès-Marcilly invece le autorità scolastiche comunali avevano finalmente considerato anche il diritto alla parità di trattamento e alla non discriminazione della ragazza, testimoniando così di una nuova consapevolezza che va diffondendosi a livello internazionale. È proprio il diritto internazionale infatti che, con la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne (ratificata dalla Svizzera nel 1997), sta facendo progredire in questo campo le legislazioni e le giurisprudenze nazionali. Tra l’altro questa Convenzione obbliga gli Stati ad adottare tutte le misure atte a combattere ed eliminare quegli usi e quelle tradizioni che sono discriminatori o che contribuiscono a mantenere la discriminazione o a crearne di nuove. Se si interpreta questa norma alla luce dell’obiettivo ultimo dei diritti umani, che è quello di permettere la massima autonomia possibile all’individuo, al centro di ogni considerazione deve tornare la ragazza musulmana. Per essa il velo può essere discriminatorio in quanto tale, è certamente veicolo che perpetua un’immagine della donna tendenzialmente impura e dunque da tenere sotto controllo, ma può anche essere paradossalmente strumento d’emancipazione in quanto condizione necessaria per accedere alla sfera pubblica, dunque all’educazione pluralista garantita dallo Stato piuttosto che al mondo del lavoro. In linea di principio dunque, se un’allieva porta consapevolmente il velo la sua decisione va tutelata in quanto espressione della sua libertà religiosa e personale, oltre che necessario strumento d’accesso alla scuola e dunque all’integrazione, a meno che questa decisione non cozzi contro la sua stessa autonomia (da ciò potrebbe eccezionalmente derivare un divieto di portare il velo a scuola, in particolare se la ragazza per la sua giovane età è ancora poco consapevole delle sue scelte o se proviene da un ambiente particolarmente oppressivo). Erano questi gli argomenti che spiegavano la decisione, comunque sofferta, delle autorità di Avant-lès-Marcilly. Peccato che siano stati del tutto stravolti a favore di una nuova crociata laicista e, soprattutto, “islamofobica”. Le cui prime vittime sono proprio quelle ragazze musulmane che dalla scuola si aspettano una vera educazione al pluralismo e un contributo alla loro integrazione a parte intera nelle società occidentali.
Pubblicato il
13.02.04
Edizione cartacea
Anno VII numero 7
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