Per la prima volta da qualche anno a questa parte, nel 2013 abbiamo assistito a un aumento del numero delle esecuzioni avvenute nel mondo. L’Iran e l’Iraq sono all’origine di questo grande aumento: 15% in più rispetto al 2012, ovvero un totale di 778 persone messe a morte.


Un dato, questo, che non tiene in considerazione la Cina, paese che rimane in testa alla triste classifica degli Stati che mettono a morte i propri cittadini, senza dubbio migliaia ogni anno. Recensire le condanne è però impossibile poiché questi dati sono classificati come “segreto di Stato” dalle autorità di Pechino. L’Arabia Saudita e gli Stati Uniti occupano rispettivamente il quarto e il quinto posto della graduatoria. Numerosi paesi usano il pretesto dei “crimini politici”, definiti in termini molto vaghi, per mettere a morte i dissidenti.
Dietro le fredde cifre si nascondono delle storie che in alcuni casi possono avere un lieto fine. Il giovane yemenita Hafez Ibrahim, sedicenne al momento dei fatti, stava assistendo a un matrimonio nella sua città natale quando è scoppiata una lite: gli uomini erano armati ed è partito un colpo di pistola che ha ucciso un uomo.

 

Del tutto inaspettatamente Hafez, che ha sempre ribadito la propria innocenza, è stato arrestato e condannato a morte. Nel 2007, quando la data della sua esecuzione era stata già fissata, grazie a un compagno di cella Hafez si è procurato un cellulare e ha scritto un sms a un ricercatore di Amnesty International a Londra: “Fratello Lamri, la data della nostra esecuzione è fissata”. Immediatamente è stata lanciata una campagna internazionale: migliaia di persone nel mondo si sono mobilitate a favore di Hafez. Il presidente yemenita ha finalmente reagito ordinando una proroga, così da dare tempo alla famiglia della vittima di decidere se concedere il proprio perdono. Dopo un susseguirsi di eventi, numerosi rifiuti di concedere la grazia da parte dei parenti dell’uomo ucciso, diversi rinvii dell’esecuzione e, infine, il versamento di un compenso finanziario alla famiglia della vittima, Hafez Ibrahim ha finalmente ritrovato la libertà.


Oggi Hafez studia diritto all’Università di Sanaa. Vuole fare tutto il possibile per trarre il meglio da questa vita che, come dice lui, gli è stata «restituita»: «Oggi consacro questa mia vita a militare contro la pena di morte e a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza dei diritti umani».
Le storie a lieto fine sono rare quando si parla di pena di morte. Da vent’anni a questa parte però un fatto concreto ci lascia ben sperare: il numero di paesi che applicano questa pena continua a diminuire: erano 37, oggi 22 di cui solo 9 negli ultimi cinque anni, hanno proceduto ogni anno a delle esecuzioni.
La tendenza a lungo termine è quindi chiara: la pena di morte diventerà una punizione del passato.

Pubblicato il 

10.04.14

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