...via col vento. Sulle strade degli Stati Uniti

Un viaggio, per quanto scontato e banale, è sempre una scoperta. È un momento magico. Un momento per guardare, conoscere, comparare e, possibilmente, per imparare a vivere in un contesto diverso. In un mondo che ha altre regole, migliori o peggiori che siano. Anche un viaggio in America non sfugge a questa regola. Certo, apparentemente tutto è «normale», ma anche qui tutto può rivelarsi «diverso». Partire da New York può sembrare un po’ banale, ma è sicuramente un buon modo per cominciare. Dopo tutto è percorrendo le lunghe e affollate vie di Manhattan che si comincia a respirare aria d’America. Si ha subito l’impressione di vivere in un film, bello o brutto che sia. Per strada si incontrano le donne in camicetta, giacca e sottana che se ne vanno in giro con calzini e pesanti scarpe da tennis, che poi leveranno in ufficio per indossare magari eleganti scarpe italiane, come faceva Melanie Griffith nel film «Working girl». Osservando ragazze magrissime, super tirate, col telefonino in una mano e un bicchiere di caffè nell’altra che corrono non si sa verso quale avventurosa avventura sembra veramente di vivere in un episodio di «Sex and the city». «Times Square» va vista di notte e di giorno. Di giorno saltano agli occhi le strade dissestate, le pozzanghere piene d’acqua dove si rischia di imbrattarsi le scarpe. La sera la piazza si veste di magia, di luci, di colori e bisogna alzare la testa per capire che non è giorno, ma notte fonda. Le buche della strada sembrano svanire nel nulla. Qualche chilometro più in giù la «city» non ha dimenticato l’11 di settembre. Il dramma di quella mattina brucia ancora nei ricordi di chi ha perso parenti o amici. Una sosta per vedere quello che resta dei due grattacieli è d’obbligo. Il silenzio, lo spazio vuoto sono più eloquenti di ogni articolo o filmato letto o guardato. Poco lontano c’è l’attracco che porta alla Statua della Libertà e a Ellis Island, dove un secolo fa finivano in quarantena gli immigrati che giungevano dall’Europa e più tardi gli italiani «nemici» della seconda guerra mondiale. Una specie di Guantanamo Bay del passato ora trasformata in museo. Per andare a Washington si può prendere il treno (il tragitto dura solo tre ore) o l’autostrada. Per chi ha tempo c’è la possibilità di seguire lentamente la costa. Le strade sono spaziose e poco affollate. I semafori sono appesi ai fili e oscillano a ogni colpo di vento, come nel film “Paris, Texas”. Meglio scansarsi. Tutto è grande: le automobili, le strade, i parcheggi. Per miglia e miglia è un susseguirsi ininterrotto di casette monofamiliari più o meno piacevoli, di stazioni di servizio e villaggi tutti uguali. Hanno il loro McDonald su un lato della strada e il Taco Bell dall’altro, il Pizza Hut e il 7eleven, che resta aperto 24 ore su 24. La pattuglia della polizia fa la ronda in cerca di chissà chi o chissà che cosa. Il vento solleva un foglio di carta da giornale. Non c’è gente in giro. Solo le macchine corrono rispettando i bassi limiti di velocità. Inevitabilmente si finisce ad Atlantic City, la mini Las Vegas sulla costa atlantica. Edifici faraonici e di cattivo gusto ospitano sale da gioco più o meno sconfinate. Il numero di slot machine sembra infinito. Qui è d’obbligo sognare di diventare ricchi sfondati nell’arco di una notte come nel film «Proposta indecente». Chi perde può consolarsi facendo una passeggiata lungo la spiaggia a raccogliere conchiglie. Si può continuare lungo la costa o tagliare verso Filadelfia, facendo magari una capatina a Baltimora a visitare l’acquarium e la bellissima raccolta di cavallucci marini. Washington è l’esatto contrario di New York. Nessun edificio può superare l’altezza del Capitol, la sede del parlamento, e grattacieli qui non ce ne sono. Per trovarli bisogna superare il Potomac, il fiume, e andare in Virginia. Washington è strettamente divisa tra quartieri bianchi e quartieri neri. La città va orgogliosa dei suoi musei, per la maggior parte gratuiti. Percorrere la lunga spianata che dal Capitol porta al Lincoln Memorial è come sfogliare un libro di storia americana, pieno di guerre, morti e battaglie decise in quell’edificio immacolato che è la Casa Bianca. Il film «13 giorni» è solo un esempio tra tanti. È inevitabile finire al cimitero di Arlington, dove accanto alla tomba del presidente Kennedy riposano generali, soldati e fantasmi di una guerra civile che ha lasciato profonde cicatrici. Non resta che puntare verso il mare e le sue oasi naturali. Chincoteague è una tappa obbligata per chi ama passeggiare lungo spiagge deserte o ammirare stormi di oche grigie o bianche e mandrie di cavallini allo stato brado. La laguna è piena di pesci e di crostacei. Difficile resistere alla tentazione di assaggiarne qualcuno. Il viaggio verso Sud, per chi ama la costa, può riservare sorprese molto piacevoli. Finalmente la natura prende il sopravvento sulle case. Nel cielo della Nord Carolina appaiono i pellicani che scendono in picchiata per afferrare la preda. Con un po’ di fortuna, si possono vedere branchi di delfini o di balene diretti a sud o a nord a seconda della stagione. È strano passeggiare tranquilli lungo la spiaggia di Outer Banks, un tempo terra di famosi pirati come Barbanera, che trovavano nella ricca e profonda vicina laguna sicuri rifugi e preziosi nascondigli. Adesso si incontrano solo pescatori e ragazzi ansiosi di tuffarsi a cavalcare le onde minacciose con le loro tavole di legno sognando l’onda perfetta come nel film «Point Break». I pirati se ne sono andati. Alcuni sono finiti dietro ricche scrivanie e le loro rapine sono ora di tipo contabile. Non resta che ripartire verso l’interno diretti a Charleston. Gli spazi si fanno sempre più ampi e le case più piccole. La ricchezza di Washington, con le ville di 30 e più stanze, giardini curati da latinos e due o tre grosse auto davanti alla porta di casa, sono solo un ricordo. Qui la vita è più dura. Le possibilità di lavoro sono meno numerose. I salari minimi, che in America sono di poco più di 5 dollari all’ora, più frequenti. La povertà in certi villaggi del Sud, ma non solo, non è una parola sconosciuta. A patirla sono soprattutto i neri, gli schiavi di un tempo che faticano ad uscire da una miseria che sembra endemica. Le case sono semplici prefabbricati consegnati e montanti nel giro di due-tre giorni. Crescono vicino alla vecchia abitazione, crollata sotto il peso del tempo e lasciata marcire in pace. Le strutture portanti sono debolissime. Sono case senza fondamenta: poggiano su piccole colonne di blocchi di cemento posti ai quattro angoli dell’edificio. Dentro hanno tutto quello che ci vuole: cucina funzionale, bagni spaziosi, armadi capienti, riscaldamento e aria condizionata. Per comprarle possono bastare 50 mila dollari (circa 75 mila franchi). Per molti americani è questa la «home sweet home». Un tornado basta per fare tabula rasa. Non resta che visitare una piantagione. Le querce secolari che circondano le case e abbelliscono il paesaggio hanno forse dato ombra un tempo a pic-nic memorabili, a soldati nordisti e a schivi affaticati dal lavoro dei campi. Adesso più semplicemente danno ristoro a turisti curiosi e magari un po’ annoiati che sognano solo di mangiare qualche delizioso piatto del sud o di rivedere il film «Via col vento». Davanti ad alcune case sventola la bandiera americana, ma su alcune auto non è raro vedere la bandiera sudista, che i neri considerano il simbolo dello sfruttamento e dell’idea schiavista. Lungo le strade donne nere vendono cestini intrecciati, ricordo di una cultura lontana, che è ormai diventata tipica del Sud. Charleston e Savanah hanno il sapore dell’America, ma anche un po’ dell’Europa. Le strade hanno un nome e non un numero. I giardini sono un punto di incontro. I tanti negozi e negozietti fanno ritrovare il piacere delle passeggiate fatte solo per ammirare vetrine e decorazioni. Il viaggio volge ormai al termine. Charleston e Savanah sono le tappe finali di un viaggio tra il Nord e il Sud, tra grattacieli e natura selvaggia, tra ricchezza e povertà, tra passato e presente. E questo è solo un piccolo pezzo di un paese che sembra non dover finire mai.

Pubblicato il

05.07.2002 02:30
Anna Luisa Ferro Mäder
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