Tutti preleviamo. Preleviamo denaro dal bancomat, preleviamo benzina dalla pompa, acqua dai pozzi, legna e funghi dai boschi, pietre e cemento dalle cave, e così via.
È tutto un gran prelevare. La parola stessa è ormai di uso talmente generale da divenire quasi opaca.
In un comunicato di alcuni giorni fa l’Ufficio caccia e pesca segnalava che nel Cantone erano stati prelevati nel mese di settembre 2005: 715 cervi, 372 caprioli e 1’442 camosci; i quali, poverini non erano stati uccisi ma, appunto, semplicemente prelevati.
Non si tratta di una questione formale di poco conto. Il termine “prelievo” legittima un concetto preciso: l’uomo ha il diritto di prendere dalla terra animali, materie prime, risorse, come se si trattasse di un comune prelievo bancario. Anzi, viene fatto addirittura un paragone, a prima vista convincente, con i meccanismi finanziari abituali. Gli animali “prelevati” sono soltanto l’interesse di un capitale (la fauna) che si presume appartenente agli umani; la legna prelevata dal bosco è soltanto l’interesse sul capitale-foresta che è in ogni caso nostro. Col petrolio è un po’ più difficile perché si ha l’impressione di intaccare seriamente il capitale, ma insomma, quando il bisogno è forte, anche il capitale può essere in qualche misura consumato.
Debbo dire che queste confusioni semantiche e queste analogie con i meccanismi della finanza mi danno fastidio; deformano la realtà ed ingannano la gente.
Era certamente più chiaro quando un cacciatore affranto ma eccitato, entrando la sera nell’osteria proclamava in maniera che tutti sentissero: “ho mazaa la légura!”. Quel “mazaa”, nella sua brutalità, era certamente meglio dell’asettico e burocraticamente legittimo “prelevato”.
Tornando poi al bancomat c’è una differenza che mi pare importante. Se tu non hai depositato nulla il bancomat non scuce un bel niente. Invece sul territorio e sul pianeta in generale noi preleviamo senza aver versato nulla in anticipo. La cosa, a pensarci bene, è piuttosto grave e il parallelo con gli interessi e col capitale non regge più.
Con queste amare riflessioni avrei in fondo finito il mio compito di oggi, ma vi chiedo di perdonarmi un piccolo sfogo finale sempre legato all’insipienza di certa terminologia. Leggo sul giornale che il Centro studi bancari di Vezia lancia un corso di “Relazionalità e tecnicalità nella gestione del cliente” (che potrei essere anch’io ma, ahimè, non è il caso). Ed allora non posso trattenermi dall’implorare che Dio mi salvi da simili nefandezze terminologiche, salvi la gente dalla “tecnicalità”, salvi la terra dai “prelievi” e noi tutti da quei linguaggi che oscurano sempre di più con tremende cortine di fumo il nostro modo di stare seduti sul ramo che andiamo giorno dopo giorno alacramente tagliando.
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