...clandestina. Maria ha ritrovato la propria dignità nella lotta dei «sans papiers»

«Io sono Maria, vengo dall’Ecuador, e ho 44 anni – li compirò tra poco». Usa dei modi semplici, nel presentarsi e nel dire quello che una clandestina non dovrebbe: che esiste. «Sono qui in Svizzera da quattro anni, dalla fine del ’97. Sono, all’inizio, stata richiedente d’asilo, col permesso N. Dopo meno di un anno ricevetti l’ordine di lasciare il paese. Non l’ho fatto, e sono restata, cominciando a lavorare come clandestina. Fino ad ora. Fino a che, l’anno scorso, mi sono integrata al gruppo che ha promosso l’azione dei sans-papiers. Perché è una cosa che mi piace, è giusta, l’ho cercata per molto tempo… Non importa, l’importante è che io sono una sans-papier e sto con i sans-papiers. A parte questo, ho quattro figli, di 25, 22, 11 ed 8 anni. Le piccole sono bambine, e stanno con mio padre. Sono vedova. Ho una licenza in letteratura castigliana , come si dice in spagnolo. Ma non ho potuto esercitare la mia professione per più di un anno e mezzo, perché la situazione nel mio paese è terribile». Sentiamo sempre dire che la Svizzera è «attrattiva». Cosa ti ha spinto a venire qui? Prima di partire, non ho scelto la Svizzera. Nel mio paese c’è un’enorme discriminazione nei confronti della mia razza, come verso quella indigena. Sembra davvero che vogliano far sparire i neri dal paese. Io sono una a cui piace discutere e affrontare i problemi. Mi sono impegnata sul tema dell’infanzia e poi ho fatto parte di un’organizzazione afro-equatoriana che esprimeva il suo dissenso dalla politica e dal razzismo con la danza e la musica. Ai bianchi non piace che si dica la verità, che ci si esprima come ci si sente, e da lì incomincia la repressione. Sono partita da sola, per un motivo politico e socio-economico; la destinazione è stata decisa appena qualche ora prima di salire sull’aereo. Poi sei sbarcata a Ginevra. Sì, e due settimane dopo stavo a Friborgo, dove ancora mi trovo. Ero partita dalla città di Ambato, e arrivai qui in Svizzera dove non conoscevo nessuno, non sapevo una parola né di tedesco, né di francese, né di italiano, parlavo solo lo spagnolo e qualche cosa di inglese. Che sentimenti hai avuto il primo giorno? Una grandissima nostalgia. Non avevo mai lasciato la mia famiglia, mi ero sempre occupata dei miei quattro figli, erano parte di me. Messo il piede su una terra straniera ho sentito di aver perso qualcosa dentro di me. Ma era troppo tardi per dire no. L’unica cosa che desideravo era di riuscire a dire in francese «per favore mettetemi in un aereo che voglio tornare in Ecuador!». Quel giorno fu terribile, se chiedevo non mi capivano, e io non capivo quando mi dicevano qualcosa. Camminai, camminai tutto il giorno a Ginevra, e la sera incontrai due donne colombiane, madre e figlia. Con loro, la mia vita cambiò, per il fatto di poter parlare la mia lingua, di sentirsi vicine. Uh, cambiò tutto, anche per piangere era diverso. Loro furono trasferite a Berna, ma rimanemmo in contatto, e quando arrivò il Natale, lo festeggiammo insieme. A Friborgo, di nuovo sola, cosa hai fatto? Era un martedì, aspettai la domenica per cercare una chiesa. Mi dicevo ci sarà pure una chiesa dove trovare qualcuno che parla spagnolo. Io ho un parente che è prete, non l’avevamo sentito da anni, e sapevo che era in Europa, ma non dove. E quando ho visto il curato della chiesa di St. Pierre, nero come me, ho pensato «questo deve essere mio cugino!». Ho seguito la messa senza capire niente, quello che mi interessava era stare davanti, per sapere se lui era mio parente. Finita la messa, tutti uscirono, lui mi guardò, ed io lo guardai. E non era lui! Maria oggi sa ridere, raccontando di quella disillusione. Mi aspettava, mi chiese cosa pensavo della messa. Gli dissi mi scusi ma non posso dirle niente, non capisco il francese, mi aiuti a trovare qualcuno di questa parrocchia che parli spagnolo. Non so come mi capì, mi fece gesto di attenderlo mentre si cambiava d’abito, e poi mi accompagnò al convento delle francescane, dove c’erano due monache spagnole. Una di loro organizzò un tè con due sudamericane che sono ancora adesso mie amiche, e che mi hanno aiutato così tanto che non si può dire, solo il mio cuore lo sa. Sono persone che, anche dopo che rimasi senza protezione, sono state per me come gli occhi e le orecchie. È stato solo in seguito che ho imparato il francese, nel primo anno non c’ero riuscita, per la depressione d’aver lasciato la famiglia. Dopo ho fatto un corso, e ho imparato leggendo, guardando la tv, e anche molto dai bambini. I bambini sono il più perfetto dizionario, perché ti correggono sempre, fino a che non pronunci nel modo giusto. E i tuoi figli, non li hai più visti? No, da quattro anni, e le bambine erano piccole. Non si erano mai separati da me. Questo mi fa male; e mi fa anche male parlare con loro al telefono… A volte è tanto difficile… Non augurerei a nessuno di essere in una situazione così, a nessuno, a nessuno. Gira discretamente il viso, per asciugarsi gli occhi e superare l’emozione parlando d’altro. Come hai visto gli svizzeri, dalla clandestinità? Ci sono svizzeri corretti e svizzeri menefreghisti, a cui non importa nulla di ciò che succede agli altri. Gli onesti mi dicono sai non posso aiutarti per questa situazione, oppure mi danno lavoro, pagandomi correttamente, senza investigare su chi sei e da dove vieni. Ma ce n’è altri, che magari conoscono l’America latina e la nostra situazione, che se ne approfittano e ti sfruttano. Fanno come da noi, ti offrono una stanza e 400 franchi. Che faccio con una situazione così? Sarei una schiava, nemmeno il diritto di uscire la domenica pomeriggio. Allora no, mi dia i 400 franchi, che io lavoro da tal ora a tal’altra, e se poi devo dormire per strada, lo faccio, ma non resto da loro. Guarda, il primo lavoro qui, me lo han pagato 360 franchi al mese. A questa condizione di schiavitù si aggiunge il pericolo… Quando ho cominciato a lavorare, curavo una bambina, e ahi ahi ahi volevano che la portassi fuori, e io avevo paura e non lo facevo. Ogni giorno la signora mi rimproverava, io le dicevo ma che posso fare se la polizia mi ferma qui per strada? Quando ero costretta, uscivo, ma piangendo, o nascondendomi, senza parlare con nessuno. Perché qui tutti ti chiedono subito da dove vieni, dove vivi, che permesso hai, da quanto stai qui? La paura diventa pane quotidiano. Uscire, già solo di mattina per andare al lavoro,e dio mio!, vedere la polizia, e pregare che non si fermi. Magari se sono in un posto affollato, posso nascondermi tra la gente. Quando vedo che chiedono i documenti, ahi prendo un autobus e faccio un giro; una volta mi attaccai al braccio di un passante dicendo mi scusi mi sento male, sto per svenire! Mai esco dopo le sette di sera. E anche nelle case dove lavoro, se non c’è la padrona, non aprire la porta, non rispondere quando suonano. O nascondersi se qualcun altro va a aprire. È terribile. Una volta telefonarono, la signora era in vacanza e io le curavo la casa. Era la Polizia, cercava una famiglia boliviana. Da quel momento per due settimane mi nascondevo in continuazione, se qualcuno pigliava l’ascensore, correvo a piedi all’altro piano, arrivavo alla mattina alle 5 e non accendevo le luci, per non far capire che c’era qualcuno. Maria stringe i pugni, raccontando dei momenti duri. Ma questa vita non ti dà rabbia? Vado in chiesa e dico, però Dio, io non faccio niente di male! Io do il mio lavoro, e in cambio di questo che ricevo, una miseria. E per giunta devo essere perseguitata, una vita che non dà da dormire e da mangiare. Ho rabbia soprattutto per l’ingiustizia del mio paese, dove studi tanto e non trovi un posto perché ti discriminano, dove le autorità fanno ciò che vogliono, i poliziotti ti possono violentare, e che ti costringe a partire. Vorrei un giorno poter dire tante cose a quella gente che ha il potere, farglielo capire. Ora spero che la nuova generazione cresca meglio, ai miei figli ho insegnato a non lasciarsi discriminare; devono lottare, se ricevono un colpo, lo devono rendere. Non porgere l’altra guancia? No, non devono soffrire come me. Devono seguire il motto «studiare, prepararsi, imparare a difendersi». Qui hai trovato solidarietà soprattutto tra le donne latinoamericane. Come sei arrivata tra i sans-papiers? Ero dalle amiche, ho sentito qualcosa dalla tv accesa. Zitte, zitte ho gridato, devo assolutamente sapere. Ma è qui, sta succedendo qui! Ci devo andare, oh no, ora è tardi, ma domani mi accompagni, domani ci andiamo! Non riuscivo a dormire, mi dicevo ma perché non l’ho saputo in tempo… Il giorno dopo, finito il lavoro, vado alla chiesa occupata, incontro dei sans-papiers che però non sapevano darmi indicazioni, e sono tornata per quattro giorni finché non ho trovato con chi parlare per iscrivermi anch’io al collettivo. Poi ho visto altre amiche e conoscenti, ne ho portate almeno otto. Il tuo viso adesso lo mostri in pubblico. Ora non mi importa. Perché se fossi tornata nel mio paese ed avessi visto in tv quello che succede qui, non mi sarei mai perdonata di non aver preso parte alla lotta dei sans-papiers. Non posso stare a guardare da dietro la porta altri che lottano per la mia stessa condizione. Ora sono contenta con me stessa. Se mi prende la polizia, pazienza; però ho fatto ciò che volevo fare. Ora mi sento libera.

Pubblicato il

08.03.2002 03:00
Alvaro Baragiola
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