Sembra uno scherzo, ma invece è l’allucinante realtà. Grandi catene nella vendita assumono lavoratrici alle quali da contratto garantiscono zero ore lavorative a settimana. Tutto legale, la legge lo consente. Lo fanno per spremere le dipendenti, per ottenere da loro la massima flessibilità, chiamandole quando servono. Ma ha anche una doppia funzionalità. Quando la dipendente diventa scomoda, perché reclama o non rende come vorrebbero, potranno ridurle le ore a zero, senza ripercussioni legali. area vi propone le testimonianze di due lavoratrici attive in Ticino.
Nata e cresciuta in Ticino, dopo essersi diplomata alle scuole commerciali, Daria* è pronta per inserirsi nel mondo del lavoro. Purtroppo, dopo tante ricerche, non trova un posto dove poter esprimere quanto studiato. Stufa del tempo che passa inutilmente, Daria accetta un impiego quale tuttofare in una mensa di una fabbrica ticinese. Serve i pasti, lavora in cucina, fa le pulizie e svolge qualsiasi mansione le venga chiesta. Daria resiste qualche anno, ma finalmente trova e accetta un’offerta di lavoro quale venditrice in un negozio di una grande catena mondiale. L’offerta non è di quelle allettanti, il contratto è di poche ore la settimana. Pur di scappare dalla mensa, accetta, nella speranza che la situazione migliori. Gli anni trascorrono e il suo contratto rimane invariato. Di norma fa più ore delle poche ore stabilite da contratto, ma con fluttuazioni di alti e bassi. «Con quel reddito, la vita è complicata. Non a caso vivo ancora coi miei genitori. È impossibile progettare un futuro, anche nelle piccole cose». Ancor peggio, per il futuro più lontano, vedi pensione. «Non tutti gli anni ho avuto la copertura del secondo pilastro». Quando non si raggiunge la soglia dei 21mila franchi di reddito annuale, il datore di lavoro è esonerato dall’obbligo dei contributi del secondo pilastro. Oltre a ricevere un reddito scarso per affrontare le spese del presente, Daria si troverà una rendita pensionistica del secondo pilastro molto bassa. Precaria ieri, oggi e precaria dopodomani. Per sfuggire alla sua condizione, Daria ha provato ripetutamente a cercar un altro posto di lavoro, possibilmente nella vendita dove ormai ha acquisito esperienza. Per migliorare le sue competenze, alla sera si è rimessa sui banchi di scuola dell’Ecap ottenendo il diploma federale nella vendita. Sul posto di lavoro, dopo diversi anni passati senza miglioramenti, la motivazione decresce lentamente, in maniera più accentuata negli ultimi tempi. Pochi mesi fa, i dirigenti nazionali del gruppo la convocano e le fanno il seguente discorsetto: «La cifra d’affari negli ultimi anni è calata. Il tuo rendimento d’incassi pure. Dobbiamo dunque apportare delle modifiche». In sostanza, le propongono di cambiare il contratto da meno di venti a zero ore settimanali. Più che una proposta, è l’unica alternativa se vuole continuare a lavorare per loro. A Daria, la situazione provoca uno stress psicologico non indifferente. Se dovesse scegliere di rifiutare, Daria riceverebbe dalla disoccupazione sessanta giorni di penalità. «Mi sento tra l’incudine e il martello». Daria non è l’unica dipendente del gruppo a cui è stata proposta la modifica contrattuale negli ultimi tempi. Salvo le responsabili dei negozi in Ticino, oggi tutte le dipendenti delle filiali sono a zero ore. Una modalità contrattuale decisamente alla moda.
Il sogno della normalità Giulia* invece è diplomata quale operatrice sociale. «Purtroppo, proprio nell’anno in cui ho concluso la scuola, il governo ha varato una legge che nei fatti cancellava quel diploma». Giovane e piena di speranze, decide di provare la sorte professionale nella vicina Svizzera, tanto più che l’Italia è in piena crisi economica post 2008. Dopo un’esperienza, allucinante, durata anni in una ditta di logistica, cambia mestiere trovando lavoro nel ramo della vendita. Da quel giorno ha cambiato tre aziende diverse, tutti grandi gruppi internazionali, sempre a zero ore, salvo in un caso dove le avevano garantito meno di dieci ore settimanali. «E per fortuna ora sono a zero ore». Stupiti, le chiediamo perché. «Quando hai le ore garantite, finisce che quelle supplementari non te le pagano. Te le mettono nel monte ore e poi te le scalano lasciandoti a casa quando gli serve. Mentre a zero ore sono obbligati a pagartele a fine mese» spiega Giulia. Paradossi dei giorni nostri. Le chiediamo dell’ultima esperienza a zero ore, presso una nota catena internazionale d’abbigliamento low-cost. «Mi hanno assunto a zero ore dicendomi, “tranquilla, di ore ne farai una ventina a settimana”. In realtà, di ore ne facevo 42 alla settimana, spesso pure 48, lavorando il sabato». A comprova, vi sono le buste paga. Dell’obbligo d’informare la dipendente sui piani di lavoro con quindici giorni di anticipo, nemmeno l’ombra. «Mi arrivava l’sms la sera prima. Sapevo quando entravo in negozio, non quando uscivo. Formalmente, mi scrivevano orario di lavoro 9-13, poi fino alle 17 “reperibile”. In realtà, lavoravo quasi sempre fino alla chiusura». Giulia si è fatta un’idea del perché propongano quel tipo di contratto. «Semplicemente perché possono ricattarti per renderti flessibile alle loro esigenze. Se inizierai a dire di no alle richieste di ore supplementari o a nuovi turni, la minaccia diventerà effettiva. Le tue ore diminuiranno progressivamente, fino a quando scompariranno quasi del tutto. A quel punto, non avendo più paga, te ne andrai». Nel caso di Giulia, il potere ricattatorio aziendale è ancora maggiore. Da frontaliera, pur versando i contributi, non ha diritto alla disoccupazione elvetica, ma a quella ben inferiore italiana. Un paracadute minimalista in caso di perdita del lavoro. Come si vive lavorando in quelle condizioni, le chiediamo. «Nessuna stabilità o certezza economica, vita sociale ridotta all’osso poiché non hai nessun giorno libero. Quando rispondi sempre di no agli inviti degli amici, finisci per perderli» spiega Giulia. Cosa speri per il tuo futuro? «Un lavoro pagato correttamente, il cui importo non cambi ogni mese e orari stabiliti che mi diano la possibilità di avere anche una vita al di fuori della professione». Nell’anno 2019, in Svizzera, pare un sogno ambire a quel che dovrebbe essere la normalità.
|