Giustizia

«Vorrei spiegare a Schmidheiny cosa significa vivere col mesotelioma»

Malata dal 2019, Daniela racconta il suo calvario e si rivolge all'imputato del processo Eternit. I racconti di altre 4 vittime.

 «Mio fratello è morto di mesotelioma a soli 33 anni»; «Ho perso mio marito 26 anni fa, aveva 49 anni»; «Mio marito Giovanni è morto 3 anni fa di mesotelioma pleurico»; «Mia mamma Laura è morta di mesotelioma»; «Ho quasi 62 anni e sono malata di mesotelioma dal 2019». Sono le voci di Giuliana, Assunta, Raffaella, Mirella e Daniela, alcune delle tante vittime dell’amianto disperso negli ambienti di lavoro e di vita dalla fabbrica Eternit di Casale Monferrato (Alessandria) che abbiamo incontrato negli scorsi giorni, alla vigilia di un cruciale appuntamento con la giustizia (GUARDA I VIDEO).

 

Il 7 giugno prossimo verrà infatti emessa la sentenza del processo Eternit bis iniziato due anni fa davanti alla Corte di Assise di Novara e che vede imputato il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny, accusato di omicidio plurimo aggravato di 392 persone (62 ex operai e 330 semplici cittadini, del Monferrato Casalese) in relazione ai morti attribuibili al suo periodo di gestione dello stabilimento, tra il 1976 e il 1986. I pubblici ministeri chiedono la condanna all’ergastolo per omicidio volontario perché «Schmidheiny ha agito nonostante la previsione dell’evento», mentre i suoi difensori ne chiedono l’assoluzione perché «non ci fu né dolo né colpa» nella sua condotta. Schmidheiny sarà condannato o sarà assolto? L’impianto accusatorio reggerà o i giudici derubricheranno l’accusa in omicidio colposo e ancora una volta (come successo nel 2014 con la Corte di cassazione che annullò la condanna a 18 anni inflitta nel primo processo dai giudici di Torino) Schmidheiny si salverà grazie alla prescrizione? Sono gli interrogativi che si pongono soprattutto le vittime e i loro familiari che da decenni rincorrono affannosamente la giustizia e che vivono queste settimane di attesa del verdetto pieni di speranze ma al tempo stesso con preoccupazione.

 

In attesa che la sentenza del 7 giugno dia queste risposte e stabilisca la verità giudiziaria, vogliamo qui raccontare un po’ di verità storica, incontrovertibile e accertata, di quello che ha significato e significa la tragedia dell’amianto a Casale Monferrato, 36 mila abitanti e una nuova diagnosi di mesotelioma ogni settimana.

Lo facciamo attraverso le testimonianze dirette di persone che la tragedia la vivono sulla loro pelle. Persone che ci raccontano le loro vicende umane e le loro sofferenze (che sono poi le storie al centro del processo di Novara), le loro speranze, le loro paure, ma anche la loro resilienza, la loro determinazione a continuare a lottare: per la bonifica del territorio, per la ricerca sul mesotelioma e per la giustizia. Anche impegnandosi in seno all’Afeva, la storica Associazione dei familiari delle vittime dell’amianto. Proprio qui nella sede dell’Afeva, in una palazzina del centro che ospita anche la Camera del lavoro di Casale, abbiamo appuntamento per le interviste.

C’è tanta voglia di raccontare, di testimoniare, di trasmettere conoscenza, anche se si tratta perlopiù di vicende dolorose, molto dolorose. Come quella di Daniela Zanier (GUARDA IL VIDEO), 61 anni, malata di mesotelioma pleurico: «La malattia mi è stata scoperta nel giugno 2019. Mi ritengo dunque abbastanza fortunata», esordisce la nostra interlocutrice di cui percepiamo subito la grande forza di volontà e il temperamento solare. «Tutto è iniziato con una sensazione di pesantezza al polmone, trattata in un primo tempo con degli antibiotici ma che una serie di esami successivi ha stabilito essere un mesotelioma pleurico. Noi a Casale abbiamo tutti questa spada di Damocle sulla testa ma quando sei in attesa di una diagnosi ci pensi e non ci pensi. Poi però arriva il risultato e prendi pienamente coscienza che anche tu sei stata colpita», racconta Daniela Zanier. «Guardando la mia lastra la dottoressa mi disse “tu sei ammalata da almeno 30 anni”. Rimasi basita perché sono sempre stata bene, non ho mai avuto ricoveri e ho messo al mondo tre figlie. Ho provato sconforto e rabbia: io non ho mai lavorato all’Eternit, ho solo respirato l’aria di Casale e anzi me ne ero andata via per dare un futuro migliore alle mie figlie. E ora mi ritrovo con questo bel ricordo». «Schmidheiny? Beh l’ho maledetto, in particolare per il dolore lancinante che provai quando mi venne tolto un drenaggio applicatomi dopo un intervento. Dispiace dirlo, ma io sono una vittima innocente».

 

«Ho avuto molti amici, molte persone che si sono ammalate dopo di me e che sono già decedute», prosegue Daniela Zanier, spiegando il senso del suo impegno di testimonianza e in seno all’Afeva: «Queste cose che faccio le faccio per loro e per le persone che scoprono di essere malate. Vorrei dare un po’ di speranza, un po’ di fiducia nelle cure. Perché abbiamo comunque un’équipe di medici particolare, molto valida, molto umana. Sono sempre alla ricerca di cure nuove e ci propongono di tutto. Noi siamo nelle loro mani ed io ho piena fiducia e faccio tutto quello che mi dicono. Ho già affrontato qualsiasi tipo di cura: 6 cicli di chemioterapia con il cisplatino che è stata molto dura, una terapia sperimentale che però non sopportavo, poi 1 anno di immunoterapia che ha ridotto parecchio la bestia. Poi radioterapia che pure l’ha ridotta. Però la bestia non si ferma: si brucia da una parte ma si infiltra in un’altra. Per questo sto facendo un altro ciclo di chemioterapia con carboplatino e poi forse ancora un po’ di radioterapia e vediamo come va. Nel frattempo porterò all’istituto dei tumori di Milano a portare un campioncino di tessuto per un’analisi genetica: un giorno potrebbe essere la soluzione per trovare un farmaco personalizzato. Io vivo così, alla giornata.

 

Come incidono le terapie sulla sua qualità di vita?

Incidono molto sulla quotidianità e sull’umore. Perché comunque è dura: sei sempre in ostaggio delle terapie, la tua vita è mediata da queste cose. Ho acquistato un camper e appena posso scappo, vado in giro. In famiglia cerco di velare un po’ le cose, anche se le figlie sono ormai adulte, una 40, una 24 e una 19. All’inizio ho pregato per arrivare almeno fino ai 18 della più piccola. In realtà li abbiamo superati e quindi speriamo in bene.

Con quali sentimenti guarda alla sentenza del 7 giugno?

Spero che questa volta Schmidheiny la paghi un po’. Credo che sia giusto. Non può essere che non sapesse nulla e oggi non riconosca le vittime e tutto quello che c’è stato. Dovrebbe venire qui, stare un po’ a Casale per capire. Provo molta rabbia nei suoi confronti. Spero che questo processo riconosca le sue colpe.

Se si presentasse l’occasione, incontrerebbe Stephan Schmidheiny?

Sì lo incontrerei, ma gli farei vedere e capire. Anche se non lo so se riuscirebbe a capire. In realtà sì mi piacerebbe parlargli, mi piacerebbe che sapesse, sì.

 

Sette anni di speranzen pe Giovanni

«Quello che è successo qui è stato ed è devastante e dunque deve esserci un epilogo importante sul piano giudiziario. Non può passare indenne una persona che ha causato un disastro tale», ci dice dal canto suo Raffaella Marotto, vedova di Giovanni Cappa, morto tre anni fa, anche lui, a causa del mesotelioma pleurico (GUARDA IL VIDEO). «Era un imbianchino e decoratore, ha avuto a che fare con materiali contenenti amianto e abitando a Casale gli è bastato respirare per contrarre questa malattia, scoperta nel 2013», ricorda la vedova. «Ha iniziato ad avere il respiro corto e ha capito subito che c’era qualcosa che non andava. È stato tra i più fortunati perché è riuscito a tirare avanti 7 anni e i primi anche con una qualità di vita abbastanza buona. Ha affrontato la malattia in maniera eccezionale, sia grazie alle cure che riceveva sia grazie all’Afeva di cui è diventato anche vicepresidente. Ha avuto la forza di affrontare questa malattia aiutando gli altri malati. Sapeva dare forza e conforto. L’immunoterapia cui si sottoponeva gli ha consentito di prolungare la vita in modo diciamo sufficientemente buono. Ma poi verso il sesto anno è iniziato il crollo. È stata veramente dura perché c’è stata una fuoriuscita del tumore all’esterno delle costole e ha avuto altre complicanze brutte. L’ultimo mese, eravamo all’inizio del Covid, ci siamo trovati in casa soli io e lui. Ero spaventata perché nessuno poteva venire in casa. Ho dovuto imparare a fare iniezioni e altri interventi per aiutarlo nel dolore fisico. Poi è stato ricoverato nel centro Hospice di cure palliative dove ha finito la sua vita. Aveva sempre un minimo di speranza, anche se poi, alla fine, è finita come finisce sempre con il mesotelioma», spiega Raffaella Marotto, ricordando che anche sua nonna e la mamma di suo marito sono morte di mesotelioma. «Spero di passare indenne. Perché io vivo da sempre a Casale», conclude.

 

La presidente dell'Afeva: mio fratello aveva 33 anni

Nella sede dell’Afeva incontriamo anche la presidente dell’associazione Giuliana Busto, il cui impegno contro l’amianto nasce da un lutto in famiglia: «Il mio incontro con l’amianto si è purtroppo verificato nel 1988, quando mio fratello, un ragazzo di 33 anni, un atleta, uno sportivo, improvvisamente ha accusato un forte dolore al petto e da lì è iniziata la nostra tragedia in quanto è poi emerso che si trattava di mesotelioma», racconta Giuliana Busto. «A quel tempo non era nemmeno ben conosciuto e non si sapeva a cosa si poteva andare incontro, ma nel giro di 5 mesi, lui che era una persona forte, amante della natura, un donatore di sangue, è morto di questa malattia». «Dopo il suo decesso ci siamo attivati per denunciare pubblicamente che la sua morte era dovuta all’amianto, anche se non aveva mai lavorato all’Eternit e abitavamo in una zona residenziale lontano dalla fabbrica: lo abbiamo fatto nel manifesto funebre. Per la città è stato un colpo, perché fino a quel momento la gravità della situazione non era conosciuta. Da allora non ho mai smesso di interessarmi al problema e purtroppo la gente continua ad ammalarsi e a morire. Qui in associazione arrivano quasi ogni settimana persone con questa diagnosi tremenda».

 

Cosa si aspetta dalla giustizia?

Provo sentimenti molto contrastanti perché da un lato si vorrebbe finalmente riconosciuto tutto quello che le vittime hanno patito, ma dall’altro ci rendiamo conto che gli avvocati difensori sono molto scaltri, persino nello smontare le diagnosi di mesotelioma. Siamo comunque determinati a continuare nella lotta. Dobbiamo essere come il mare che continua ad infrangersi sugli scogli. Comunque vada il 7 giugno, la ricerca della giustizia continuerà. Lo dobbiamo a chi è mancato ma anche alle famiglie e tutte le persone che hanno dovuto subire questa enorme ingiustizia.

 

La minaccia della prescrizione

Un’enorme ingiustizia che ha colpito anche Assunta Prato, insegnante in pensione e militante dell’Afeva, tuttora impegnata soprattutto nei numerosi progetti che si portano avanti da molti anni in collaborazione con le scuole del territorio nonché parte civile nel processo di Novara. GUARDA IL VIDEO

Racconta: «Ho perso mio marito 26 anni fa. Aveva 49 anni, i nostri figli ne avevano 18, 17 e neppure 14. È facile immaginare che tragedia sia stata per noi. Nulla potrà mai restituirci mio marito, il padre dei miei figlio e il nonno dei miei nipoti nati nel frattempo. Ma quando durante il primo processo di Torino abbiamo sentito per due volte la parola “colpevole” ci si è allargato il cuore. Poi quello che è successo a Roma con la Corte di Cassazione è stata una pugnalata. Ora abbiamo molti timori per la sentenza del 7 giugno perché le più recenti decisioni prese dai tribunali in casi analoghi non sono confortanti. Se per esempio l’accusa venisse derubricata da omicidio intenzionale a omicidio colposo, mio marito rientrerebbe nei casi cancellati dalla prescrizione. Sarebbe uno smacco doloroso, perché ci aspetteremmo che venisse affermata la verità. Una persona che in una riunione con i suoi manager diceva (come emerso dai processi) “sappiamo che l’amianto è cancerogeno ma la cosa non deve uscire da qui”, è una persona che sapeva quello che faceva e che è andata avanti lo stesso nel nome del profitto. Dunque, se c’era questa consapevolezza non capiamo come possa essere ritenuto non responsabile. Sentire gli avvocati persino negare quello che è stato, mettendo in discussione addirittura le diagnosi di mesotelioma e accusando i medici di Casale Monferrato di “esagerare con le diagnosi” è stato urtante. Ma come si permettono di dire una cosa simile? Si divertivano forse a scrivere che si trattava di mesotelioma quando si trattava di un’altra patologia? A loro giudizio, mio marito avrebbe avuto un mesotelioma “possibile”, neppure “probabile”. Chissà di cosa sarà morto a 49 anni avendo perso più di 20 chili, con una spalla 10 centimetri più bassa dell’altra, con il polmone atrofizzato? Sappiamo che chiunque ha diritto a una difesa ma sentire una mistificazione tale della realtà è stato molto doloroso e offensivo. Il 7 giugno vorremmo sentire parole di verità e di giustizia», conclude Assunta Prato.

 

Il suo forte legame con la scuola l’ha portata ad impegnarsi per trasmettere la conoscenza su questa tragedia tra i ragazzi. Ce ne vuole parlare?

È un impegno ormai più che decennale che porto avanti insieme a tanti altri docenti ancora in attività e che coinvolge tute le scuole della città. È un impegno consolatorio perché ci aiuta, grazie alla forza e all’immensa e bellissima energia che emanano i nostri ragazzi, ad avere fiducia nel futuro nonostante le batoste subite. Riteniamo che sia fondamentale diffondere una cultura più consapevole e più responsabile sui danni che l’uomo può fare all’ambiente e alle altre persone ed immaginare un mondo diverso. Come si è cercato di simboleggiare con una recente iniziativa: uno striscione di 60 metri quadrati con raffigurato un melograno, con i suoi fiori, le sue foglie, i suoi chicchi per dare l’idea che insieme e uniti come i chicchi di questo frutto si può davvero fare qualcosa per cambiare le cose.

 

L’impegno con le scuole

L’impegno nella scuola è condiviso anche da Mirella Bertana, insegnante di scuola primaria in pensione, che a causa dell’amianto ha perso la mamma Laura: «Non ha mai lavorato all’Eternit. Gestiva un negozio di vini, liquori e acque in Piazza Castello ed è morta per mesotelioma pleurico», ricorda. «Quando è mancata ho sentito forte il dovere di fare qualcosa per il dramma che colpisce la nostra città. Una delle prime cose è stato di rafforzare l’impegno nella scuola elementare per far conoscere ai nostri bambini la storia di Casale, dove prima o poi si viene in contatto con questo problema. E soprattutto per spiegare loro con le parole giuste e affrontare insieme a loro il problema e una malattia che fa molta paura. Ma anche per cercare di cambiare la connotazione di Casale da “città dell’amianto” a “città della lotta contro l’amianto”, resiliente, forte nell’affrontare le avversità», spiega Mirella Bertana. Pur non nascondendo momenti duri e di sconforto vissuti durante il processo: «Essendo familiare di una vittima, in certe udienze si riaprono ferite tremende, soprattutto quando senti negare alcune cose evidenti, quando senti mistificare i fatti che noi abbiamo vissuto. Addirittura è stato detto che le diagnosi di mesotelioma sono state “gonfiate”. Una ferita che ci ha squarciato, difficile da metabolizzare», conclude.

 

Pubblicato il

29.05.2023 14:26
Claudio Carrer
Giustizia

«Vorrei incontrare Schmidheiny e spiegargli»

Leggi l'articolo

Per i 392 morti d'amianto a Casale Monferrato la Procura chiede l'ergastolo per Schmidheiny

Leggi l'articolo

La tragedia Eternit e il bisogno di giustizia

Leggi l'articolo

«Una storia di devastazione sociale e umana del territorio»

Leggi l'articolo
Editore

Sindacato Unia

Direzione

Claudio Carrer

Redazione

Francesco Bonsaver

Raffaella Brignoni

Federico Franchini

Mattia Lento

Indirizzo
Redazione area
Via Canonica 3
CP 1344
CH-6901 Lugano
Contatto
info@areaonline.ch

Inserzioni pubblicitarie

Tariffe pubblicitarie

T. +4191 912 33 88
info@areaonline.ch

Abbonamenti

T. +4191 912 33 80
Formulario online

INFO

Impressum

Privacy Policy

Cookies Policy

 

 

© Copyright 2023