Volti cubani in "Suite Habana"

È in distribuzione in Ticino (all’Iride di Lugano) una perla rara della cinematografia contemporanea: “Suite Habana” del cubano Fernando Perez. È uno di quei film di contemplazione del mondo e dei ritmi della vita quotidiana, che chiedono totale disponibilità allo spettatore nel farsi trasportare da una partitura per suoni e immagini. Un po’ come i celebri “Koyaanisqatsi” e “Powaqqatsi” di Godfrey Reggio o i più artigianali “Voci nel tempo” e “Al primo soffio di vento” di Franco Piavoli. Il rischio in questo genere di film, apparentemente senza sceneggiatura e molto difficili da gestire, è di finire in un manierismo fine a sé stesso, di perdere nello stile e nell’estetizzazione l’emozione che vorrebbero regalare. “Suite Habana” scansa abilmente questo pericolo. Seguendo la giornata di dieci persone comuni dell’Avana contemporanea Perez offre sì uno spaccato della vita sociale cubana, ma anche un’indagine nei sentimenti più umani, profondi e universali. Emoziona quindi sia chi il cuore l’ha lasciato a Cuba, sia chi per l’isola non ha un interesse specifico. Costruito attorno ai sogni cantati da John Lennon nella sua “Imagine” (cfr. riquadrato), girato in digitale (e si vede: la pellicola avrebbe reso molta più giustizia al film) e con focali lunghe che colgono i primi piani per isolare i personaggi dal mondo, “Suite Habana” rappresenta il coronamento della carriera registica di Perez che, in origine documentarista, è poi passato alla fiction e trova in questo ibrido una perfetta fusione dei generi. In questa intervista, realizzata lo scorso anno al Festival di Locarno, il sessantenne autore di “La vida es silbar” racconta il suo nuovo film, il cinema cubano e il suo paese. Fernando Perez, “Suite Habana” è un film molto particolare. Lei come lo definirebbe? Lo definisco un film documentario, che mostra un giorno nella vita dell’Avana attraverso le attività quotidiane di dieci persone comuni, senza interviste, senza narrazione, senza dialoghi, soltanto con immagini, musica e rumori. È un film semplice ma con uno sguardo molto realista e con molte emozioni. Anche come documentario è molto particolare, perché stilisticamente (luci, movimenti di camera, pulizia formale, ecc…) si avvicina di più al cinema di finzione. Perché un documentario sulla vita dell’Avana? È stata una proposta del produttore spagnolo. In origine questo film avrebbe dovuto costituire una puntata di una serie televisiva intitolata “Città invisibili”. Ma poi l’idea di fare una serie è caduta, e io ho continuato con il mio progetto, che s’è però trasformato in un film per il cinema. E come è stato accolto “Suite Habana” dagli avanesi? “Suite Habana” è uscito all’Avana con una sola copia nel luglio del 2003 ed ha riempito la sala del Chaplin per 5 settimane consecutive. È stato il film cubano di maggior successo degli ultimi quattro anni, assieme a “Lista de espera”. “Suite Habana” ai cubani è piaciuto perché ha fatto scoprire una realtà che normalmente non si vede alla tv o sulla stampa, con uno sguardo emotivo e pieno di amore per dei personaggi molto comuni, veri, quotidiani e rappresentativi. Lei è un regista cubano che riesce a lavorare con continuità: non è scontato… Sì, io mi sento fortunato. Faccio un film ogni quattro anni, non è molto ma per me è un buon ritmo. Come è cambiata la situazione per il cinema cubano negli ultimi 3-4 anni? Sostanzialmente è sempre la stessa, ma credo che si sono fatti i primi passi per ritrovare la dinamica che il cinema cubano aveva perso. Nel 2002 si sono fatti 5 film, nel 2003 invece solo 2. Molto dipende dalle situazioni contingenti. Ma la situazione sta migliorando. Nel sistema di produzione dell’Istituto cubano di arte e industria cinematografica (Icaic) si stanno mettendo in pratica delle trasformazioni per arrivare ad un sistema di produzione più flessibile, per non dipendere unicamente o dalle coproduzioni internazionali o dai finanziamenti dello Stato. Inoltre si è cominciato a lavorare sistematicamente con i giovani per trovare nuovi talenti e per trovare nuove strade per arricchire la diversità del cinema cubano. Frutto di questi nuovi orientamenti è quel piccolo gioiello che risponde al nome di “Video de familia” di Humberto Padron del 2001, visto nel 2003 al Festival di Locarno? Sì, è forse finora il frutto migliore di questi sforzi. Quel film è un’espressione molto autentica di una parte della nostra realtà. Un solo film non è in grado di riprodurre la complessità cubana, nemmeno “Suite Habana”. Ma lo sguardo di quel film sulla nostra realtà è molto profondo e complesso. È possibile per lei oggi realizzare un film per il cinema senza doverlo coprodurre con l’Europa, in particolare con la Spagna? La flessibilizzazione della produzione cubana andrebbe proprio in questa direzione. Lo stesso Padron dopo “Video de familia” ha poi fatto un lungometraggio, interamente realizzato in video e totalmente autoprodotto senza la partecipazione dell’Icaic o di coproduttori. È una specie di “Dogma” cubano. La coproduzione gli serviva soltanto per la trasposizione su pellicola e il mixaggio del suono. Io invece credo di non poter fare a meno delle coproduzioni, perché il mio stile non è “Dogma” e inoltre un certo modo di lavorare e produrre avventurosamente va bene per i primi film, non quando si comincia ad avere qualche anno. Come vede il futuro del cinema latinoamericano? La storia del cinema latinoamericano dimostra che esso è sempre sopravvissuto a tutte le difficoltà. Forse un anno non si produce nulla di buono, ma certamente l’anno dopo sì: è un po’ come il mare, che un giorno è piatto e il giorno dopo è in tempesta. Non c’è il pericolo che le attese del pubblico europeo obblighino voi cubani, in particolare attraverso le coproduzioni, a fare i film che noi vogliamo vedere? Non per il momento. Il cinema cubano è molto diverso e la sua caratteristica è sempre stata quella di fare del cinema d’autore. Queste caratteristiche gli danno una forza tale da poter resistere alle pressioni dei coproduttori. C’è collaborazione fra voi registi cubani con la tv cubana? No, nessuna. Anche perché la tv cubana ha uno sguardo sulla realtà diverso da quello del cinema. Lo sguardo del cinema è più complesso, mentre la tv pensa di più a diffondere un messaggio, è più massificante. In questo modo la collaborazione è impossibile. E per come stanno le cose oggi a Cuba non sarebbe nemmeno utile per il cinema, perché la tv è spesso molto superficiale, tutt’altra cosa del cinema cubano. Il cinema cubano è libero? Per me sì. Cinema, letteratura, arti plastiche, teatro e musica sono diventati uno spazio creativo molto più aperto di quanto ci si immagini. Noi sappiamo che la società cubana ha dei problemi in questo senso, ma penso davvero che il cinema di Cuba rappresenti un reale spazio di libertà. In Europa s’è aperto un dibattito a sinistra se e in che misura si possa e si debba ancora stare “dalla parte di Cuba” e in particolare del governo castrista. Qual è la sua opinione e quella degli intellettuali cubani? Penso, come la maggioranza degli intellettuali cubani, che per giudicare Cuba in questo momento si deve farlo attraverso un’analisi delle trasformazioni che ha subito il mondo negli ultimi anni. Non solo Cuba, ma tutta la realtà mondiale s’è indurita. Basti pensare al dominio esercitato sulla realtà dal potere militare, che si esprime nella guerra in Iraq. Ora siamo in un mondo che di giorno in giorno si avvicina sempre più ad una situazione quasi totalitaria. Cuba è immersa in questa realtà e non può essere giudicata facendo astrazione dal contesto, altrimenti si è ingiusti. Quindi Cuba più che fuori dalla storia è pienamente inserita nella storia di oggi. Cuba è sempre stata una possibilità di risposta alla realtà del mondo. Certo è una risposta molto particolare: Cuba è un’idea. È vero che la realtà cubana è molto contraddittoria, ma essa rappresenta pure una risposta ad un mondo che viepiù diventa uniformato, unitario e dominato da una sola nazione e soprattutto da un solo modo di pensare. John Lennon su una panchina «Era l’epoca in cui praticamente si seguivano con il microscopio i ritmi delle canzoni per vedere se alcune avevano cellule di rock, che a loro volta erano interpretate come cellule di penetrazione pro-imperialista». Con queste parole il cantautore Silvio Rodríguez – fondatore del movimento della Nueva Trova e deputato al parlamento cubano – ricordava qualche anno fa in un’intervista la censura che in piena Guerra fredda si abbatteva a Cuba sulla musica rock, sui Beatles e su John Lennon in particolare. Era la seconda metà degli anni ’60. Gli “scarafaggi”, bollati con il marchio di “imperialisti”, erano appena passati per la prima volta alla radio, ma a Silvio Rodríguez – che in “Suite Habana” appare cantando “Mariposas” – la passione per il quartetto di Liverpool era comunque costata il posto alla televisione di stato. Oltre trent’anni dopo, l’8 dicembre 2000, è toccato proprio a lui inaugurare assieme a Fidel Castro la statua bronzea di John Lennon seduta su una panchina nell’omonimo parco del Vedado, all’Avana. Nel frattempo a Cuba rivendicare il rock, i Beatles e John Lennon aveva cessato di essere un segno di deviazionismo ideologico o di opposizione politica. A loro oggi sono dedicati concerti, seminari, statue. Lennon è stato metabolizzato, addirittura reso funzionale al progetto rivoluzionario cubano. “Imagine” è diventato per Fidel Castro un inno pacifista di resistenza al guerrafondaio Bush, colonna sonora della cosiddetta “battaglia delle idee” di cui si è fatto portabandiera il suo governo. «Mi dispiace non averti conosciuto prima», ha detto il líder máximo all’inaugurazione della statua dedicata al cantante assassinato nell’80. Davanti al Lennon di bronzo nel film di Fernando Pérez si alternano – giorno e notte, con sole e pioggia – anonimi e incrollabili custodi dei sogni che nascono, muoiono e ogni tanto si realizzano in un’Avana decrepita, materialmente povera, ma nonostante questo (e altro) ancora sognatrice come il re dei sognatori, che in “Imagine” cantava “You may say I’m a dreamer, but I’m not the only one” (“Puoi dire che sono un sognatore, ma non sono l’unico”), verso inciso nel bronzo ai piedi della statua al Vedado.

Pubblicato il

01.10.2004 04:30
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