Voglie di protezionismo

C’è in atto un rovesciamento globale. Non si sa dove porterà e quali conseguenze comporterà, anche su ognuno di noi. C’è chi semplifica le cose parlando, semplicemente e radicalmente, di “guerra commerciale”. In termini concreti: gli Stati Uniti che, soprattutto nell’interesse loro (commerciale, imperiale), sono stati i grandi iniziatori e fautori della liberalizzazione mondiale degli scambi, stanno ora facendo clamorosa retromarcia e con la politica del presidente Biden (già avviata da Trump) tornano al protezionismo, limitando importazioni, proibendo esportazioni (soprattutto con contenuti tecnologici, temendone la riproduzione), favorendo con forti incentivi fiscali o facilitazioni logistiche sia l’insediamento di industrie straniere sia il ritorno di industrie ch’erano emigrate (rilocalizzazione delle industrie).

 

Tutto ciò sta creando grossi problemi tra gli “alleati” europei, tanto che l’Ue trova difficoltà a escogitare una risposta che salvaguardi i propri interessi (esportazioni) o, implicitamente, a creare qualche difficoltà all’economia americana o alle multinazionali Usa, tanto da indurre a ripensare o a indietreggiare.

 

La Cina, particolarmente presa di mira, anche per ovvi motivi geopolitici, sa dal canto suo di avere più di un asso nella manica: il prezzo dei suoi prodotti che aiuta a tener bassa l’inflazione, problema maggiore per gli Stati Uniti; il fatto di essere un mercato essenziale e irrinunciabile per l’economia americana e per diverse sue multinazionali che vi si sono installate e dove fabbricano, per i costi salariali bassi, per le condizioni di lavoro ma, soprattutto, per le materie prime che vi abbondano e non si trovano altrove (come il litio  o le cosiddette materie rare essenziali per le nuove tecnologie o per la transizione ecologica-energetica) parte dei loro prodotti.

 

La Svizzera, fuori dal coro, giocherà con il suo tradizionale pragmatismo (ad esempio: ti compro gli aerei, ma non mi chiudi le porte, neppure quelle bancarie). Al di sopra di tutto, quasi comun denominatore, è ciò che si attribuisce anche in questo caso al “populismo”: un’avversione popolare al libero scambio e alla globalizzazione perché fa solo la fortuna di pochi, danneggia industrie nazionali d’ogni settore o l’agricoltura, sottrae posti di lavoro mettendo in concorrenza, su salari e condizioni di lavoro, i lavoratori stessi, facendone le vittime.


La maggior parte degli economisti, gli imprenditori, i mercati finanziari, concordano nel sostenere che il ritorno del protezionismo o una guerra commerciale sono una disgrazia. Facilitare gli scambi è condizione necessaria per creare più valore: già teoricamente è un’evidenza. Affinché due parti decidano di scambiarsi i beni, è però indispensabile che ognuna condivida un interesse, che lo scambio crei valore per le due parti.

 

Due sono i problemi che si pongono, e da tempo, tanto da mettere in crisi la globalizzazione che doveva creare ricchezza per tutti. Il primo è il prevalere della visione egoistica-nazionalista che si fonda su un’equazione mortifera: distruggiamo del valore per meglio goderne. Il secondo è una domanda cui non si è mai data risposta e che rimane al centro delle crisi e delle carenze della politica economica e delle fragilità attuali della democrazia: come favorire il libero scambio per creare del valore evitando le captazioni e le predazioni di pochi, la distruzione del clima, favorendo una ripartizione più equa?

Pubblicato il

11.05.2023 12:02
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