«Vogliamo la terra»

In mezzo al verde lussureggiante della campagna fuori São Paulo, vediamo spuntare delle capanne coperte da plastica nera. A São Jose dos Campos un bambino rincorre un cane, un altro guarda, senza troppa convinzione, l’autobus che si avvicina lentamente. Fa caldo all’accampamento «Chico Mendez». Fa caldo e manca l’aria. Soltanto un grande albero, poco distante dalla terra occupata dal Movimento Sem terra, concede una tregua con la sua ombra. A poco a poco dalle capanne – quattro bastoni piantati nella nuda terra e ricoperti da plastica nera – vediamo uscire uomini, donne, bambini, anche piccolissimi. Ci vengono incontro mentre la volontaria di E-changer, Mirela Borloz, spiega loro chi siamo. Camminando lentamente ci addentriamo nell’accampamento e dopo un primo momento di «osservazione» le lingue cominciano a sciogliersi, a descrivere la vita e l'organizzazione della comunità. Ognuno, al suo interno, ha un compito che svolge con assoluta serietà È come una catena che si inanella attorno alla solidarietà, alla sopravvivenza e alla lotta. Alla lotta per la terra da coltivare. «In Brasile – ci dice Milton un esponente dell’accampamento – c’è tantissima terra, così tanta da poter sfamare tutti. Invece migliaia di persone muoiono di fame perché la terra è diventata una fonte di pura speculazione. In Brasile c’è della terra buona che non viene coltivata; i latifondisti preferiscono lasciare andare tutto al macero piuttosto che darla ai contadini. Noi non vogliamo la guerra. Noi vogliamo la terra». L’importanza della comunità Poco dopo mezzogiorno i Sem Terra ci invitano sotto il grande albero; la voglia di raccontare è grande e a turno Milton, Maddalena, Samuel e gli altri parlano della loro motivazione, delle loro speranze ma anche delle paure. Il marito di Maddalena, per esempio, dopo un periodo in comunità ha preferito partire. Non ce la faceva. Milton, ex sindacalista ed ex libraio, alla sua sesta esperienza, spiega l’importanza dell’occupazione. «È una forma di lotta – osserva Milton – che obbliga a schierarsi e alla quale prendono parte intere famiglie. È importante per creare uno spirito comunitario. Nel nostro accampamento all’inizio c’erano 180 famiglie, adesso alcune sono partite. Ma altre arriveranno. La forza della lotta, che travalica i confini del Brasile, risiede nella partecipazione collettiva. L’occupazione, insomma, non è un grido isolato, ma quello di tutta una comunità che chiede mezzi per lavorare la terra e mangiare». Un’opinione condivisa da tutti, anche da coloro che prima consideravano l’Mst un covo di «estremisti». Sull’importanza della lotta del movimento neppure Neuri Rossetto, uno dei responsabili del movimento a São Paulo, ha dubbi. Nel suo ufficio ci ha spiegato che in Brasile la riforma agraria non è più una rivendicazione dei soli contadini, ma un’esigenza della società nel suo complesso. Un messaggio che è stato portato al secondo Forum sociale di Porto Alegre dove l’Mst ha animato diversi seminari e laboratori di discussione. Centrale, naturalmente, la questione agraria. Il Brasile dispone di un territorio immenso, solo in parte sfruttato, diviso tra i pochi latifondisti che si spartiscono le ricchezze sulla pelle di lavoratori trattati come schiavi. Poiché in questo paese grande come un continente il «modello agricolo» si basa sul dominio del capitale sull’agricoltura. Ciò significa concentrazione dei proprietari terrieri, controllo dell’industria agroalimentare da parte delle multinazionali e controllo assoluto sulle biotecnologie. La spartizione e il controllo delle terre ha avuto come conseguenza lo spopolamento delle campagne che ha generato fame, disoccupazione, migrazioni verso città grandi e piccole. Molti contadini sono finiti nelle favelas, più poveri e disperati di prima. A Porto Alegre il Movimento Sem Terra ha denunciato i danni causati dal neoliberismo che affama e distrugge la dignità delle persone. Ed ha proposto, come alternativa, un nuovo uso della terra. «Noi proponiamo che la terra – ha detto nel corso di un’affollata assemblea João Pedro Stedile – sia di tutti, mentre oggi, se va bene, le persone vengono sfruttate per lavorarla o per farne dei guardiani. Noi siamo convinti che solo la popolazione possa essere garante di un corretto uso della terra. Che offre il cibo per mangiare e per sfamare. In Brasile, attualmente, succede tutto il contrario». La mano nera della repressione Al di là degli ideali e delle rivendicazioni occorre ricordare che la lotta dei Sem Terra è comunque dura. Spesso i militanti del movimento sono vittime di violenze, dure repressioni, denunce ingiustificate, minacce, arresti arbitrari, torture, omicidi, massacri. Nel giro di quattro mesi i lavoratori uccisi sono stati otto. L’anno scorso in tutto il Brasile sono morte venti persone. Uccise senza pietà. Nonostante la mano nera del terrore incomba sulla vita dei Sem Terra, il movimento non si piega. «Se tutti insieme riusciremo a muovere più persone – ha detto Stedile in un’intervista ad un collega italiano – il processo di democratizzazione sarà più rapido e meno cruento. Se le persone che muoveremo saranno poche lo stesso processo sarà più lungo e più cruento. Ma una cosa è certa: la migliore arma del povero è la testa. Non ha senso costruire eserciti del popolo con il fucile in spalla».

Pubblicato il

01.03.2002 05:30
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