Dire "no, grazie" al lavoro gratuito o ai tagli di salario senza contropartita, è possibile. In queste pagine raccontiamo attraverso le voci di quattro protagonisti la dinamica interna alla loro fabbrica che ha permesso di raggiungere quel risultato.
Dire no alle imposizioni aziendali è dunque possibile, ma sono necessarie alcune condizioni. Prima fra tutte, la determinazione e la forza delle maestranze stesse. Secondo, occorre un supporto sindacale combattivo che funga da sostegno sia materiale che cognitivo e, non da ultimo per importanza, da parafulmine contro gli strali della direzione e la proprietà. Non sono dei lavoratori sprovveduti che si scavano la fossa da soli, spingendo la ditta alla delocalizzazione. Non rifiutano i sacrifici richiesti per il solo piacere di farlo. Chiedono rispetto e trasparenza, rifiutandosi di sottomettersi ai diktat imposti. Pretendono di poter conoscere il reale stato economico aziendale che dimostri la necessità dei sacrifici loro richiesti. E se saranno convinti della difficoltà economica aziendale, si adopereranno per trovare delle soluzioni temporanee accettabili per tutti. A patto però che quanto concesso dagli operai venga loro restituito quando l'azienda supererà le difficoltà. Possono apparire semplici regole dettate dal buon senso. La realtà invece è diversa. Sono maggioritarie le ditte dove i "sacrifici" dei dipendenti vengono imposti dagli interessi di una sola parte in gioco, proprietari e azionisti. Ne è un esempio il grande gruppo Gf Agie Charmilles, proprietario di uno stabilimento in Ticino a Losone dove lavorano 370 persone. Escludendo i sindacati dalla trattativa, la direzione ha discusso solo con la commissione del personale. Risultato, tre ore di lavoro gratuite alla settimana. Poche settimane prima, il gruppo Gf Agie Charmilles aveva annunciato il raddoppio dell'utile nei primi sei mesi del 2011 rispetto all'anno precedente (92 milioni di franchi di utile rispetto ai 41 milioni del primo semestre 2010). Un'ultima nota. Salvo un operaio, gli altri intervistati hanno preferito l'anonimato loro e dell'azienda. Ciò non toglie nulla al loro valore. Sono persone che conducono lotte coraggiose all'interno della fabbrica, mettendosi in gioco in prima persona. L'anonimato è comunque indice della difficoltà in cui operano in difesa dei diritti loro e dei colleghi. Senza una tutela giuridica dalle ritorsioni aziendali, il loro compito è senz'altro più difficile. |