Vita da profughi

«No, non rimpatriati ma riammessi in Italia», così ci ha corretto il comandante delle guardie di confine Fiorenzo Rossinelli pochi momenti dopo che i 62 sudanesi erano stati consegnati alla polizia italiana. Una vicenda, quella di questi profughi che hanno portato la loro protesta da Milano fino in Svizzera, che a quanto pare ha bisogno dei puntini sulle “i” e che ha fatto muovere coi piedi di piombo le autorità del Cantone Ticino. Accolti dapprima a Castel S.Pietro e in seguito a Chiasso – per motivi umanitari poiché parecchi di loro erano allo stremo delle forze a causa del freddo e della fame –, sono stati infine “riammessi” fra le 5 e le 8 del mattino di martedì al punto di partenza in Italia. Ma quale è la storia di questa gente? Cosa volevano dalla Svizzera e dall’Onu? Cosa hanno ottenuto? Ripercorriamo questa vicenda direttamente con alcuni di loro – ancora nella questura di Milano quando scrivevamo questo articolo – e con Pietro Maestri, consigliere provinciale italiano, che ha seguito la loro storia fin da quando in quel 15 novembre 2005 avevano deciso insieme ad altri 200 immigrati di occupare una palazzina abbandonata nella centrale via Lecco di Milano per protestare contro le condizioni di alloggio alle quali erano sottoposti. «L’arma più potente in mano al comune di Milano in questo momento è il freddo e la fame», ci ha detto Pietro Maestri raggiunto proprio mentre i 62 profughi sudanesi erano in viaggio verso la questura. Quale futuro per loro? «O si piegano ai voleri di questa giunta di centro-destra che domina la città di Milano o sono destinati a riprendere il loro vagabondaggio per le strade della capitale economica come faceva la maggior parte di loro fino a quando, insieme ad un gruppo di eritrei ed etiopi, si sono ribellati con l’occupazione di via Lecco», ha aggiunto il consigliere provinciale di Rifondazione comunista che fin dai primi giorni ha cercato una soluzione per questi immigrati. Le radici di questa vicenda affondano infatti nell’occupazione il 15 novembre scorso di uno stabile abbandonato nella “troppo centrale” via Lecco di Milano (vicino a corso Buenos Aires). Quando la questura di Milano entrò in quei giorni nello stabile censì 265 persone che condividevano la palazzina sprovvista di riscaldamento. Era un gruppo formato da persone di tre nazionalità. Si trattava di etiopi, eritrei e sudanesi regolarmente in Italia chi con lo statuto di rifugiato politico, chi richiedente l’asilo e infine i sudanesi con il permesso di soggiorno per motivi umanitari. «Prima si arrabattavano per strada – dice Maestri –, perlopiù stavano nella zona di Linate in condizioni disastrose, sono cose che non racconto per sentito dire ma che ho visto con i miei occhi. Poi hanno formato un gruppo e hanno deciso di prendersi una casa dove stare e sono arrivati in via Lecco. Ma quello che volevano e che vogliono ancora adesso è unicamente un alloggio dignitoso per tutti loro come prevede la legge italiana». Ma la giunta di Milano è per la linea dura fin dall’inizio. Pietro Maestri ci tiene a ripercorrere tutto l’iter delle trattative fra gli immigrati e le istituzioni perché «si capisca davvero cosa ha spinto 62 persone a intraprendere un altro viaggio della disperazione, questa volta verso la Svizzera». «L’occupazione è andata avanti con alti e bassi fra minacce di sgombero, discussioni, interventi di varie associazioni come Emergency, la Caritas, l’Arci e la Cgil – racconta Maestri –. Insieme si era cercato di rendere più vivibile quel freddo caseggiato, lo avevamo pulito insieme a loro. Il risultato di tutto questo lavoro è stato un’offerta del tipo prendere o lasciare al momento dello sgombero che è avvenuto il 27 dicembre. L’offerta delle autorità cittadine consisteva in alcuni container in via Breme (si veda foto, ndr). Sono container che in realtà sono ad uso ufficio per cantieri, sono ancora lì adesso. Secondo le intenzioni del comune dovevano essere per 4 persone ma poi l’ufficio dell’edilizia ha deciso che erano troppo piccoli di metratura e che al massimo ci potevano vivere in 3. Sono riscaldati ma lasciati in una zona all’aperto. Il passaggio fra interno ed esterno è molto forte. Un’ulteriore sistemazione erano sempre questi stessi prefabbricati posizionati però in un luogo più protetto di fianco alle docce pubbliche in via Pucci. Soluzione che presentavano problemi da un punto di vista delle uscita di sicurezza. Infine un’altra “generosa” offerta erano le docce pubbliche di via Anfossi dove sono stati posizionati dei letti in grandi camerate divisi dai servizi unicamente da tende (si veda foto, ndr). Tutti alloggi inadeguati e indecorosi per delle persone che ufficialmente sono state accolte dall’Italia». Tutto precipita la sera del 27 dicembre quando i 265 non accettano l’offerta di Milano, vengono sgomberati con la forza dalla polizia. Decidono di non arrendersi e passano la notte all’adiaccio presidiando lo stabile chiuso a chiave. Quella notte nevicava. La mattina seguente la questura interviene nuovamente caricando i profughi su degli autobus. L’intenzione era quella di piazzarli in via Breme. Ma lì non c’è posto per tutti, così vengono portati ai locali della protezione civile nella periferia Nord in via Barzaghi, vicino al cimitero ad 8 chilometri dal centro. «A quel punto la giunta si è ripresentata nuovamente sempre con le stesse proposte», continua a raccontare il consigliere provinciale. Alle 7 di sera i 265 formano un corteo con l’intenzione di arrivare a piazza Duomo e dormire lì per non far così soffocare la loro protesta. «Nel frattempo la provincia di Milano (con una maggioranza di centro-sinstra, ndr) proponeva come soluzione una scuola in via Saponaro di proprietà del Comune di Milano ma in comodato alla Provincia – dice Maestri –. Sarebbe stata una buona soluzione per 200 di loro e i rifugiati l’avrebbero accettata. Finalmente c’erano delle mura di mattoni. Ma a questo punto il comune di Milano si è rifiutato di lasciarlo usare agli immigrati e ha vietato alla Provincia di destinarlo per questo uso. Vergognoso». Sono pronti a dormire sotto agli occhi della Madonnina ma questa volta interviene il presidente della provincia di Milano e in accordo con il prefetto mette a disposizione degli immigrati i locali della sede provinciale per una notte. A una condizione però: da quel momento devono sospendere la protesta, passare le notti seguenti nelle sistemazioni proposte dalla città. In cambio c’è l’impegno che entro il 10 gennaio sarebbe stata trovata una soluzione dignitosa per tutti. Così i sudanesi vengono portati nei dormitori in via le Ortles in quanto non v’è spazio nei vari container. «I giorni sono passati e la Provincia ha proposto l’ex convitto di viale Piceno. Il comune ha messo sul tavolo invece lo stabile di una vecchia scuola in viale Fulvio Testi trasformata in un luogo più accogliente. In fondo così si riconosceva che gli altri posti non erano poi tanto dignitosi». Soluzioni che però avrebbero comunque comportato che una parte di loro, quelli nei container di via Breme e via Anfossi, sarebbero dovuti restare lì dove erano. È proprio a questo punto fra la notte del 10 e l’11 i sudanesi partono da viale Ortles verso la Svizzera. Vogliono parlare con l’Onu a Ginevra, raccontare la loro condizione. Ma quella notte vengono intercettati dalle guardie di confine svizzere nei boschi del Penz a Chiasso. Alcuni di loro a causa del freddo e dello sciopero della fame sono stremati. Il Canton Ticino in via straordinaria – poiché la procedura per chi è già ammesso in un altro paese è quella della riconsegna entro 48 ore dall’arrivo – decide di accoglierli. Dopo meno di una settimana la «palla» come ha detto il comandante delle guardie di confine Fiorenzo Rossinelli è stata riconsegnata in mano alle autorità italiane. I sudanesi si sono opposti con la forza alla “riammissione”, mentre scriviamo sono in questura a Milano e il loro morale è a terra. «L’Europa è solo gabbie, freddo e manette per noi», ci ha detto sconsolato Adam mentre aspettava il suo turno per parlare con i funzionari della questura (si veda articolo sotto). “Ancora nell’inferno” «L’Europa? Per me è solo gabbie, manette e freddo», ci dice Adam uno dei 62 sudanesi che sono stati riconsegnati all’alba di martedì dalle autorità elvetiche ai vicini italiani. Lo raggiungiamo poche ore dopo il viaggio che lo ha riportato da Chiasso verso l’Italia mentre è ancora trattenuto nella questura di Milano «mi dispiace ma io non parlare italiano buono», dice all’inizio diffidente. Con il suo “italiano non buono” Adam ci spiega che lui come la maggior parte dei 62 sudanesi è profugo del Darfur. Il conflitto scoppiato a metà del 2003 insanguina ancora oggi la regione nonostante si sia formalmente firmato un accordo di pace. Ragion per cui non possono essere considerati rifugiati politici. Sono però regolarmente in Italia con il permesso di soggiorno per motivi umanitari. «Io ho 21 anni, non so dove sono i miei fratelli, mamma e babbo – dice Adam –, forse sono morti nel deserto». Proviamo a farlo parlare del viaggio che ha fatto da Milano verso la Svizzera ma lui insiste solo a dire che «non serve a niente parlare, nessuno ci vuole veramente. Sono ancora nell’inferno». Lui è fra quelli che ha opposto resistenza ai cento agenti che hanno accompagnato i sudanesi verso la dogana. Cosa farai adesso? gli chiediamo. Dice che non accetterà di tornare nei dormitori di viale Ortles a Milano, che vuole un posto decente per ricominciare a vivere insieme ad almeno alcuni dei suoi compagni di viaggio. Al momento di andare in stampa i sudanesi erano ancora bivaccati in piazza Repubblica. “Io sto nei container” Ibrahim è un eritreo di 25 anni. Fa parte di quel gruppo di 265 persone che il 15 novembre scorso avevano occupato una palazzina in via Lecco a Milano in segno di protesta per le condizioni di alloggio offerte dai servizi sociali milanesi. Dopo lo sgombero del 27 dicembre (si veda articolo sopra) lui è alloggiato in un container e da lì non si è mosso, a differenza dei 62 sudanesi. E questo nonostante che gli fosse stato promesso che entro il 10 gennaio sarebbe stata trovata una sistemazione più dignitosa. Quello che gli piace del prefabbricato, ci dice, è che ha uno spazio suo anche se diviso con 2 amici. Non gli piacevano le grandi camerate dei dormitori, si sentiva ancora in fuga. «Io non ce la facevo più a stare al freddo. Troppo freddo», ci dice giustificandosi per essersi arreso. Ma subito dopo aggiunge che lui era fra quegli eritrei che hanno protestato davanti alla sede del Comune (si veda foto) mentre i sudanesi erano a Chiasso. «Volevamo una soluzione per tutti noi, ma abbiamo perso», dice Ibrahim commentando il ritorno dei 62 sudanesi a Milano. Dice che ora cercherà di farsi andare bene qualsiasi posto. Vuole solo trovare un lavoro: «forse poi con i soldi mi daranno una casa migliore». Il suo sogno era quello di poter tornare un giorno ad Addis Abeba, in Etiopia, da dove è scappato durante il conflitto con l’Eritrea del 1998. Dopo aver vagato in Africa per alcuni anni è giunto infine in Italia con un barcone. Ora però che la tensione fra i due paesi torna ad acuirsi Ibrahim dice solo di voler dimenticare il suo passato e diventare «un vero italiano».

Pubblicato il

20.01.2006 03:00
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