Violenza, la lezione del Kosovo

Si conclude questo fine settimana il Festival internazionale del teatro di Lugano. Un festival che ha ancora in serbo diversi intriganti spettacoli. Fra questi anche "La lezione" (titolo originale: "Mësimi") che il regista kosovaro Bekim Lumi ha tratto dall'omonima pièce di Eugène Ionesco mettendola in scena per il Teatri Dodona di Pristina. Lumi, quarant'anni, dopo gli studi in lettere a Pristina s'è diplomato in regia teatrale a Tirana. Lo scoppio della guerra in Kosovo l'ha spinto a cercare asilo in Germania, dove Lumi ha accumulato le sue prime vere esperienze professionali. Lo abbiamo incontrato alla vigilia della replica luganese di "La lezione".

Bekim Lumi, il suo spettacolo "La lezione" è tratto dall'omonimo testo di Eugène Ionesco. Che lavoro ha eseguito sul testo originale?
"La lezione", malgrado i molti cambiamenti che vi ho apportato, rimane riconoscibile. Ho eliminato il personaggio della donna di servizio e ho tagliato circa il 40 per cento del testo originale. Inoltre ho cercato di capire quale fosse la violenza di cui Ionesco parla nel sottotesto e ho cercato di esplicitarla. In Ionesco alla fine il professore uccide l'allieva, ed è questa l'unica scena di violenza. Nel mio spettacolo questa scena è preceduta da una di stupro. Credo che questa scena, non indicata nel testo in nessun modo, fosse comunque ben presente nell'animo di Ionesco quando scrisse "La lezione". Nel suo testo ci ha messo più di quanto lui abbia scritto esplicitamente. Quanto alla messa in scena, è molto realista, lontana dal teatro dell'assurdo.
È uno spettacolo a tesi?
La mia tesi è che se non si ferma in tempo una violenza verbale, questa prima o poi diventa una violenza fisica. Troppo spesso accettiamo da politici discorsi carichi di violenza senza dire loro "basta". In questo modo accettiamo anche che poi passino all'azione.
Il suo spettacolo ha un rapporto diretto con la violenza vissuta in Kosovo in anni recenti? Ad esempio i due protagonisti sono etnicamente riconoscibili?
No, ho voluto fare uno spettacolo che affrontasse in maniera generale la questione della violenza. È questione di persone, e di rapporti fra persone. Penso che una persona che ha potere (in quanto ad esempio è più forte) può sempre violentarne una più debole. È nella natura umana che chi ha più potere esercita più violenza. L'origine etnica qui non c'entra. D'altro canto è vero che la violenza che abbiamo vissuto noi è certamente maggiore di quella che vivete in Occidente: ognuno nella propria famiglia in Kosovo ha persone che sono state violentate o uccise. E credo che la violenza sia impiantata nelle nostre teste un po' come il disco duro in un computer: devo constatare che la gente nei Balcani tende ancora più facilmente che altrove alla violenza.
Allestire lo spettacolo è stato per voi anche un modo di elaborare questa violenza?
Non si tratta di noi personalmente. Io ad esempio durante la guerra sono rimasto quattro anni in Germania come richiedente l'asilo. Sono rientrato alla fine delle ostilità, nel dicembre del 2000. Ma vedevo le notizie alla tv e avevo ancora ben presente quanto già la situazione fosse difficile prima che scoppiasse la guerra. Tutto questo però per me è stato soltanto un motivo d'ispirazione. Anche perché non volevo fare una copia sulla scena della violenza reale. Alla fine degli spettacoli in Kosovo spesso riscontro una forte emozione nel pubblico, diversi piangono: ci si chiede come fosse possibile aver creato tanta violenza nella propria vita quotidiana. Se la violenza sul palco è così brutta, quanto orribile dev'essere stata la nostra realtà quotidiana?
Rappresentare certe scene di violenza è una difficoltà particolare?
Non credo. All'inizio abbiamo lavorato molto sul testo, ho spiegato che era uno spettacolo sulla violenza che comprendeva anche uno stupro. Adriana è una donna sposata, e dal punto di vista della mentalità in Kosovo può essere molto difficile rappresentare una scena di violenza carnale. Ma dal momento che le ho spiegato che non c'è nulla di erotico non ci sono più state difficoltà. E anche per il pubblico non ci sono mai stati problemi: perché la scena è inserita in un crescendo di violenza nel cui contesto essa appare normale.
"La lezione" è stato allestito al Teatri Dodona di Pristina. Quali sono oggi le condizioni di produzione in Kosovo?
In Kosovo sono attivi sei teatri, quattro dei quali a Pristina (due pubblici e due privati), ma lavorano in condizioni difficili. Mancano soldi per l'arte e la cultura, e di quei pochi una fetta importante finisce in burocrazia. Questo spettacolo l'ho realizzato nel 2002. Tornato dalla Germania ho cercato di montarlo ma nessuno mi ha aiutato, un po' perché nessuno mi conosceva, un po' perché soldi non ce n'erano. Così l'ho finanziato con i risparmi che avevo accumulato in Germania. Il Teatri Dodona di Pristina mi ha messo a disposizione l'infrastruttura per le prove. Abbiamo lavorato tre mesi e mezzo prima del debutto. Da quando ho fatto "La lezione" ho poi potuto lavorare regolarmente: tra l'altro ho fatto altre due regie al Teatri Dodona e due al Teatro Nazionale.
Com'è stata la sua esperienza di richiedente l'asilo in Germania?
Un'esperienza molto interessante. Non è facile essere richiedenti l'asilo, specialmente se si vuole esercitare il proprio mestiere di artista. Ma poi ho potuto costituire una compagnia teatrale a Monaco. Ho radunato tutti gli attori professionisti kosovari che erano richiedenti l'asilo in Germania e abbiamo dato vita ad una compagnia che si chiamava "Loja", cioè "Gioco". Era la prima volta che una compagnia professionista albanese lavorava in un altro paese. Abbiamo realizzato due spettacoli, una commedia di Checov e un pezzo di un drammaturgo nazionale albanese. Il pubblico erano soprattutto albanesi del kosovo e tedeschi interessati alle culture balcaniche. Il pubblico tedesco che normalmente va a teatro non ci ha seguito molto. Del resto ci rivolgevamo più ai nostri connazionali in Germania, spaventati e stanchi della guerra. Volevamo dare loro un segnale di vita, di speranza. Alla fine della guerra una parte della compagnia è tornata in Kosovo, altri sono rimasti in Germania dove lavorano ma non più come attori. Avrei voluto costruire qualcosa di stabile, di strutturato, che potesse durare nel tempo, ma nessuno ci ha sostenuti finanziariamente.

Pubblicato il

27.10.2006 05:30
Gianfranco Helbling
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