Violenza di Stato: quando le espulsioni forzate dei richiedenti d'asilo si trasformano in tragedie

È morto in un ascensore dell’aeroporto di Kloten per asfissia. Khaled Abuzarifa aveva 27 anni. Stava per essere imbarcato su un volo per il Cairo. Era il 3 marzo 1999: i poliziotti chiamati ad eseguire un ordine di espulsione, per impedirgli di opporre resistenza e di gridare, lo legarono ad una sedia a rotelle e gli tapparono la bocca con del nastro adesivo. Dieci mesi più tardi l’istituto di medicina legale di Zurigo confermò il terribile sospetto: il decesso è stato provocato dal nastro adesivo; l’uomo aveva una malformazione della cavità nasale destra ed è morto soffocato perché non poteva respirare da una sola narice. Il medico non se n’era accorto. I tre poliziotti della cantonale bernese percepirono invece la presenza di un problema, chiamarono il medico che al suo arrivo non poté che constatare la morte del poveretto. A due anni e mezzo di distanza, questi assassini sono chiamati a rispondere del loro operato davanti alla giustizia del tribunale distrettuale di Bülach (presso Zurigo), che martedì prossimo emetterà la sua sentenza. È la prima volta che in Svizzera, e in Europa, dei poliziotti vengono processati per un’espulsione forzata finita tragicamente. Quello di Khaled Abuzarif non è, per contro, l’unico caso di violenza contro candidati all’espulsione. Risale a pochi giorni fa la testimonianza al Telegiornale della Tsr di un medico vodese che ammette di aver constatato negli ultimi due anni almeno 20 casi di lesioni gravi dovute a maltrattamenti della polizia del suo cantone. L’ultimo caso mortale risale ai primi di maggio ed è avvenuto in Vallese: il 27enne nigeriano Samson Chukwu è morto per asfissia poco dopo essere stato legato e percosso in attesa di essere caricato su un aereo per l’Africa. I fatti parlano chiaro: con l’inasprimento delle norme sull’asilo (si pensi in particolare alle cosiddette misure coercitive introdotte nel 1995) la resistenza dei rifugiati al momento di partire è cresciuta, così come la risposta della polizia. Un circolo vizioso che sta facendo perdere il senso della misura: ai recalcitranti che gridano si chiude la bocca col nastro adesivo, quelli che si agitano vengono legati con cinture in cuoio, trasportati con sedie a rotelle e spesso tramortiti con calmanti. Metodi che rientrano nella cosiddetta espulsione forzata di livello 3, che la legge aveva previsto per i criminali particolarmente pericolosi. Non essendovi però alcuna direttiva federale sull’applicazione, i cantoni godono di ampi margini di manovra. Sono i poliziotti a decidere caso per caso. Sono gli uomini in divisa a decidere dove si ferma la sicurezza e dove inizia l’umiliazione e il trattamento degradante. Nel canton Zurigo per esempio, si è venuto a sapere attraverso una dichiarazione un po’ ingenua del portavoce della polizia, che la maggior parte degli espulsi coi metodi del livello 3 non ha nemmeno un trascorso penale. Oggi tutti intuiscono che l’arsenale utilizzato per espellere i richiedenti l’asilo (vedi riquadro) è fatto di strumenti per lo più illegali, in contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ciononostante il mondo politico tace. In Belgio l’uccisione di un rifugiato da parte della polizia ha portato almeno alle dimissioni del ministro dell’interno. In Svizzera invece, anche dopo la morte di Khaled, non si è ritenuto opportuno fermarsi a riflettere. Il ministro della giustizia Ruth Metzler non si è nemmeno degnata di rispondere ad una lettera inviatale dall’organizzazione palestinese Human Rights Monitoring Group, che chiedeva spiegazioni sulla morte di Khaled. Oggi, i suoi assassini sono in attesa di un verdetto che, possiamo anticipare, andrà ad aumentare la lista delle ingiustizie. Per i quattro imputati l’accusa chiede infatti cinque mesi sospesi condizionalmente. Un ulteriore offesa ai genitori e agli amici di Khaled, che a vita dovranno sopportare il dolore di aver perso una persona cara, morta ammazzata solo per aver cercato la libertà.

Pubblicato il

29.06.2001 01:00
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