Vino e virtù

Invecchiando s’impara che, nei momenti in cui l’animo va in confusione, è vantaggioso fare un po’ d’ordine tornando alla filosofia antica. A Platone, per esempio, con il Fedone o con le Leggi o con il Simposio che non è solo un capolavoro della letteratura greca, bensì della letteratura di tutti i paesi e di tutti i tempi. In un certo senso, il Simposio è una «bevuta» tra intellettuali. C’è Socrate, il filosofo per eccellenza. C’è Fedro, il letterato sensibile. C’è Pausania, l’oratore e politico. C’è Erissimaco, lo scienziato. C’è Aristofane, il poeta comico. C’è Agatone, il poeta tragico. C’è Aristodemo, chiamato a svolgere la parte simbolica di Socrate «giovane» e curioso. Eppoi c’è il vino, costantemente presente sullo sfondo come la filigrana in un francobollo. Il vino, nel Simposio, non è oggetto di trattazione filosofica ma è vissuto e concretamente sperimentato al punto di consentire l’accesso a ciò che immediatamente non è visibile. La graduale ubriachezza ch’esso induce nell’uomo sviluppa la regressione allo stato d’animo infantile e rende più arduo il controllo su se stessi. La degradazione che ne deriva è utile secondo Platone poiché compaiono in superficie – e pertanto si fanno visibili – due fattori che, per l’anima, sono indispensabili ad ottenere la vittoria della virtù nel conflitto interiore. Il primo è il coraggio di fronte ai nemici. Il secondo, la paura di fronte agli amici. Nelle Leggi, Platone insegna che entrambe le qualità debbono essere coltivate con la «capacità di misurarsi con la viltà e vincerla» (Leggi I, 647c) e con l’inclinazione a «liberarsi dall’impudenza e dalla violenza e ad essere paurosi sempre di osare di dire o fare qualsiasi cosa non bella» (Leggi I, 649d). Sorge a questo punto un problema. Se il coraggio di fronte ai nemici può essere esercitato con relativa facilità, come può avvenire la liberazione dall’impudenza? La risposta di Platone ci viene ancora dalle Leggi (Leggi I, 648d) ed è questa: «…non si vergognasse (l’uomo virtuoso) di allenarsi fra molti convitati e di dimostrarsi capace di superare e di dominare la potenza dell’inevitabile trasformazione che gli viene dalla forza della bevanda e di non cedere per la sua virtù all’indecenza, vacillando in nessuna delle cose importanti, e di non alterarsi, e si fermasse astenendosene poi prima dell’ultimo sorso, temendo di perdersi, come tutti si perderebbero sconfitti dalla bevanda». In sintesi di che cosa si tratta se non di coltivare il coraggio con l’esercizio della paura e il pudore con l’esercizio dell’impudenza? Prova, quest’ultima, che, come avverte Platone, deve avvenire nel gioco, con le dovute precauzioni (Leggi I, 649e).

Pubblicato il

16.11.2001 12:30
Ferruccio Marcoli