In Ticino si votano iniziative che mettono al centro lo straniero, creando divisioni e minando il clima di convivenza. Non è un caso isolato: l’affermarsi di movimenti populisti è tendenza planetaria: dall’Europa che erge muri fra nazione e nazione, a quella parte degli Stati Uniti che pensa di potersi affidare ciecamente a un predicatore scellerato sul piano dei contenuti politici come Donald Trump. Il mondo si sta bevendo forse il cervello?
All’inizio, eravamo a metà anni Ottanta, fu Jean-Marie Le Pen. Pittoresco, per non infierire, venne giudicato. Poi però i fenomeni da baraccone hanno figliato come lapins e oggi un personaggio chiamato Donald Trump non solo sta correndo, ma ambisce anche con una certa chance alla Casa Bianca: il cuore del potere mondiale. Non stupiamoci quindi di quanto sta accadendo nei nostri piccoli e ristretti confini. È precisamente quanto sta avvenendo ovunque. Che dire? Siamo almeno alla moda. Ma perché? Lo abbiamo chiesto a Toni Ricciardi, storico delle migrazioni all’Università di Ginevra. Brexit e il referendum ungherese contro le quote degli immigrati sono gli ultimi due casi a livello europeo di marcata ed esibita chiusura su sé stessi. Il principio che lega queste iniziative sembra essere “ognuno a casa propria” nel tentativo di recintare il proprio territorio. Difenderlo con i denti. Non solo dunque nel Canton Ticino, che è confrontato con una grave situazione occupazionale. C’è un filo che lega queste votazioni contro lo straniero che si rincorrono di paese in paese? Io non parlerei di votazioni contro lo straniero, bensì di voti di paura contro un nemico immaginario, cancellato il quale ci si illude che spariranno sofferenze, indigenza, difficoltà del quotidiano e preoccupazioni economiche. È un dato di fatto: i problemi esistono e oggi siamo confrontati con una chiara debolezza a livello di dirigenze politiche, mancano le opzioni e una visione d’insieme. In questo scenario, ne approfittano gli schieramenti populisti che non offrono soluzioni, ma slogan. Slogan che si riducono a parole urlate in una finzione della realtà. Lo sappiamo: senza stranieri che lavorano, si registrerebbero danni per l’economia, tanto che quei frontalieri demonizzati li si andrebbe a riprendere con le carrozze d’oro. Ma, si sa, la propaganda è da sempre lo strumento più forte del potere. Qual è il pericolo che si corre? Anni di questa narrazione possono indebolire notevolmente il tessuto, il clima sociale e politico. Idee deboli, non strutturate da sostanza e forza che a furia di essere ripetute rischiano però di insediarsi nelle coscienze per riemergere, ostacolando la crescita non solo di singole nazioni, ma del vecchio continente, dell’Europa nel suo insieme. Qual è il pericolo? Che si sgretoli quel poco di sistema comunitario costruito. L’Unione europea dovrebbe invece poter procedere sul sentiero dell’integrazione politica. L’Ue, nei confronti degli attori internazionali, si ritrova già oggi in una posizione di minoranza, e se si indebolisce ulteriormente rischia di farsi risucchiare. Non possiamo illuderci di tagliare i ponti e vivere felici e prosperosi. L’economia è interconnessa. Obama ha salvato un milione di posti lavoro a Detroit? Bene, ma dall’altra parte quanti ne ha portati via Marchionne dall’Italia? Occorre che per queste interconnessioni vengano trovate delle risposte vantaggiose non solo per le élites economiche, ma capaci di creare benessere per tutti. Si parla di globalizzazione, di scambio di merci, di libera circolazione, quando si tratta di un fenomeno iniziatosi già nel 1500. Ma quanti statisti vediamo in giro? I politici devono essere lungimiranti, tanto da essere in grado di prendere decisioni anche, capaci di gestire i conflitti del mondo e i flussi umani. Purtroppo, si assiste a una drammatica penuria di queste figure. Perché si sono persi per strada gli statisti a beneficio dei politicanti? Che cosa è venuto a mancare? Si è indebolita la categoria degli intellettuali. Necessari per rilanciare il dibattito civile e trovare soluzioni ragionate e sensate. Non è un caso che fino a venti anni fa il sottoproletariato votava una certa classe politica, oggi vota i partiti populisti, chi offre loro una ricetta pronta. Vince chi meglio cavalca le paure. Questo perché dall’altra parte c’è stato uno sganciamento dalla realtà, delle narrazioni non più coincidenti con il vissuto. Quindi, di fronte a questo spaesamento, a questa mancanza di visioni e di risposte, chi non arriva a fine mese si appiglia a chi proclama di avere la soluzione anche se poi non ce l’ha e probabilmente neanche la cerca. Più si indeboliscono i punti di riferimento del dibattito, più conquistano spazio i venditori di fumo. E chi vota, ma soprattutto vive i problemi, si lascia sedurre da chi sa parlare alla tua pancia. Per passare dalla dimensione macro ai microcosmi, che cosa pensa della situazione del Ticino? La situazione particolare del Ticino non è affrontata adeguatamente da Berna. Lancio una provocazione: siete un cantone che dipende in larga parte dalla Lombardia, di cui rappresentate la periferia strana. Se la Lombardia funziona economicamente, funzionate anche voi. È ora di dichiararvi zona franca con una diversa fiscalità per farvi sopravvivere.
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