Vendita, i costi della flessibilità

Le venditrici e i venditori del Ticino hanno una percezione molto negativa del prolungamento degli orari di lavoro e delle aperture festive e domenicali dei negozi che, ritengono, mettono in seria difficoltà l’organizzazione della vita privata e familiare. Un sacrificio a loro parere inutile, poiché non contribuirebbe neppure ad aumentare, se non in modo irrilevante, la cifra d’affari dei negozi. Non solo: il 44 per cento degli stessi dipendenti percepisce un salario lordo inferiore ai 3 mila 500 franchi (fra le donne, il 74 per cento) in un settore che l’Ufficio federale di statistica nell’“Inchiesta sulla struttura dei salari 2004” situa in quarta posizione fra i settori dell’economia privata meno attrattivi dal profilo salariale (preceduto dai settori pulizie, ristorazione e lavanderie). Sono questi alcuni dei segnali importanti emersi da una prima e provvisoria valutazione dei dati contenuti nell’inchiesta promossa dal sindacato Unia Ticino e Moesa e realizzata dall’Ufficio studi e ricerche Ecap (Ente per la formazione, la riqualificazione professionale e la ricerca) sulle “Condizioni di lavoro e flessibilità nel settore vendita” nel nostro Cantone. Lo studio è stato condotto dalla ricercatrice Tatiana Lurati Grassi e data la sua ampiezza verrà completato verso l’inizio dell’estate 2006. «Sono dati che ci confermano che stiamo andando nella giusta direzione, in particolare per quanto concerne la nostra battaglia contro le aperture domenicali che secondo l’80 per cento degli interpellati si ripercuote negativamente sulla loro vita privata. E che ci danno un motivo in più per opporci con fermezza all’estensione del lavoro domenicale, oggetto su cui voteremo il prossimo 27 novembre. Un’estensione che se approvata spianerebbe la strada alla deregolamentazione degli orari di apertura». Così Enrico Borelli, responsabile del settore vendita presso Unia Ticino e Moesa, commenta i primi dati emersi dalla ricerca in corso. L’obiettivo di raccogliere circa mille questionari fra i circa 7’500 venditori e venditrici operanti in Ticino non è molto lontano se pensiamo che già alla fine di ottobre ne sono stati compilati ben 675. «Si tratta di un ottimo risultato – ci dice la ricercatrice Ecap Tatiana Lurati Grassi, responsabile del progetto – perché ci risulta che finora non è mai stato raccolto un numero così elevato di questionari per una ricerca simile. Siamo di fronte ad un campione rappresentativo sia per il genere, età, stato civile, origine e la professione e che prelude ad una buona analisi». Un successo che ha portato il sindacato a chiedere alla ricercatrice responsabile dello studio una prima lettura. Scopo dell’inchiesta, come era stato spiegato al momento della sua presentazione (cfr. area n. 38 del 23 settembre 2005), è di avere un quadro esaustivo della realtà attuale del settore del commercio al dettaglio in Ticino sulla base del quale il sindacato possa basare il proprio lavoro nei prossimi anni. Ma soprattutto si è voluto dare la parola alle lavoratrici e ai lavoratori del settore per capire le condizioni di lavoro, le difficoltà, le esigenze e le aspettative di chi opera sul campo. E a questo proposito il segretario regionale di Unia Ticino e Moesa Saverio Lurati afferma che «le indicazioni emerse dall’inchiesta sono un punto di partenza assolutamente imprescindibile in vista delle discussioni per l’adozione di un Ccl del settore, accompagnato da un decreto di obbligatorietà generale, e nella prospettiva di una inevitabile modifica della Legge cantonale sul lavoro». La ricerca offre anche un’interessante indicazione sul rapporto fra piccola e grande distribuzione e sindacati. Il 36 per cento dei questionari infatti proviene dai dipendenti della Coop, il 40 per cento dai piccoli negozi e il restante 24 per cento dagli altri negozi della grande distribuzione. «In generale – afferma Enrico Borelli – i dati emersi dalla ricerca e la facilità con cui si sta svolgendo, dimostrano che siamo sulla buona strada del radicamento e di un’armonizzazione dell’attività sindacale nel settore della vendita nel quale siamo presenti soltanto da una decina d’anni. Da rilevare però che, a fronte di un’attitudine neutra di Coop, abbiamo riscontrato un tentativo di ostacolare lo sviluppo del sondaggio da parte di altre catene della grande distribuzione». In un settore composto per oltre il 70 per cento da donne colpisce la forte discriminazione salariale. Il 34 per cento delle donne percepisce un salario lordo inferiore ai 3 mila franchi, il 39 per cento inferiore ai 3’500. Dato questo che conferma quanto riscontrato da una ricerca condotta dall’Unione sindacale svizzera nell’ambito del progetto pro parità “Fairplay”: le donne percepiscono, per lo stesso lavoro, salari inferiori del 21 per cento rispetto a quello dei colleghi uomini. Altro elemento di disparità emerso è che i maschi, pur rappresentando solo il 30 per cento del campione, sono meglio qualificati delle donne, vuoi perché hanno seguito un tirocinio, vuoi perché ricoprono un ruolo che corrisponde alla loro qualifica. Mentre le loro colleghe, pur avendo imparato il lavoro direttamente sul posto e pur avendo buone competenze, non ricevono un adeguato riconoscimento formale. «Inoltre le donne – prosegue Tatiana Lurati Grassi – presentano più spesso nel loro percorso professionale delle interruzioni di carriera, se non dei blocchi, ad esempio dopo la nascita del primo figlio. Quelle che poi decidono di riprendere spesso non riescono a trovare un posto che corrisponde alla loro qualifica o si ritrovano ad essere indietro con l’aggiornamento». Un altro dato che sorprende, continua la nostra interlocutrice, riguarda i carichi familiari. Il 63 per cento del campione – pur essendo costituito prevalentemente da donne – non ha figli, il 20 per cento ha figli tra i 0 e i 10 anni e il 17 per cento ha figli dai 10 anni in su. «È un’indicazione – dice la ricercatrice – che porta a chiedersi se la bassa percentuale di dipendenti madri non sia dovuta al fatto che il settore non offra loro sufficienti opportunità di collocare i propri figli adeguatamente durante i loro orari di lavoro». Ma come hanno risposto alla voce “flessibilità” gli interpellati? «In genere i dipendenti – spiega la ricercatrice – non vede di buon occhio la flessibilità negli orari d’apertura. Emerge inoltre il fatto che circa il 50 per cento degli interpellati non viene informato sui propri turni di lavoro almeno 14 giorni prima come prevede la legge sul lavoro, il che porta i dipendenti a far capo per l’affidamento dei figli ai propri partner e ai parenti.» «È un dato che dovrebbe far riflettere – commenta Borelli – e far capire quanto tali infrazioni delle disposizioni legali condizionino pesantemente la vita familiare dei dipendenti creando loro un forte disagio sociale.»

Pubblicato il

18.11.2005 02:00
Maria Pirisi