La scarsa resistenza incontrata delle truppe americano-britanniche nella loro conquista dell’Iraq poteva far prevedere una facile gestione del dopo-Saddam. Invece il sorprendente dileguamento di uno degli eserciti e dei regimi più temuti potrebbe persino trasformarsi in una trappola per i vincitori. Gli attacchi contro le forze di occupazione sono quotidiani e sempre più sanguinosi, le vittime della “pace” rischiano di diventare più numerose di quelle della guerra. E ad esorcizzarlo non bastano i proclami dell’amministratore americano Paul Bremer e di Bush, che tentano di ridurre la resistenza all’azione di ex-saddamisti o, come aggiunge il segretario alla difesa Donald Rumsfeld, di delinquenti, e comunque tutti dicono che non si lasceranno intimorire. Ad essere intimoriti sono invece i soldati – 145 mila americani, oltre ai 12 mila britannici, cui si aggiungeranno entro settembre altri 20 mila uomini di diversi paesi – che, secondo la stampa americana, stanno cercando ogni pretesto per tornare a casa. Il generale Tommy Franks, comandante delle forze Usa in Afghanistan e in Iraq, prima di lasciare l’incarico, martedì scorso, a John Abizaid, ha detto che non ritiene si debbano mandare forze supplementari in Iraq. D’accordo anche Bush che però non esclude di far ricorso alla Nato, anche perché non riesce a convincere nemmeno i governi sostenitori della guerra ad inviare proprie truppe in Iraq. L’inadeguatezza del più grande esercito del mondo, in grado si occupare un paese in meno di un mese, nel far fronte alla “guerriglia” della resistenza irachena è dimostrata anche dalla decisione di imporre una taglia sulla testa di Saddam – 25 milioni di dollari, come per Osama bin Laden – dei figli – 15 milioni di dollari – e di compensare le informazioni sugli autori degli attacchi alle truppe americane con 2 mila 500 dollari. Una battaglia a suon di dollari che invece non vengono sganciati per l’avvio della ricostruzione del paese ridotto ad uno stato molto peggiore di prima della guerra: senza elettricità, acqua, telefoni. Condizioni di vita che alimentano l’ostilità della popolazione nei confronti delle truppe straniere, su cui fa leva l’ex rais con i suoi (o almeno a lui attribuiti) ripetuti appelli televisivi – trasmessi dalle tv arabe – che invitano a combattere gli “occupanti infedeli”. L’esercito più potente del mondo è ingabbiato nella trappola della sicurezza. Una priorità in un paese dove le stime valutano una presenza di 7 milioni di fucili su una popolazione di 24 milioni di persone, vale a dire che ogni maschio adulto dispone di un’arma. Oltre ai fucili gli iracheni sono dotati anche di armi pesanti – granate, Rpg, mine – e gli attacchi quotidiani lo dimostrano. La sicurezza passa attraverso il disarmo e l’instaurazione di una legalità riconosciuta. Per ora puri miraggi in Iraq. Paul Bremer aveva tentato la strada dell’amnistia per chi avesse depositato le armi pesanti entro il 15 giugno, ma i depositi sono rimasti vuoti o quasi. Nessuno vuole rinunciare alle armi: c’è chi già le sta usando e chi non vuole privarsi di questa possibilità. Molti con il pretesto di difendersi dai saccheggiatori che continuano a devastare case, negozi e siti archeologici. Fallito il “disarmo volontario” le truppe sono passate alla coercizione: perquisizioni e sequestri. Di giorno le strade sono paralizzate dai continui check point che esasperano gli automobilisti più ancora delle lunghe code per procurarsi un pieno di benzina. Irruzioni e terrore Ma gli assalti ai quartieri delle città ritenuti più pericolosi per gli americani, o per i britannici al sud, si consumano di notte, durante il coprifuoco. I soldati fanno irruzione nelle case, buttano giù tutti dal letto, donne e bambini terrorizzati compresi, incuranti delle tradizioni e delle imposizioni religiose. Fanno uscire gli abitanti e cominciano le perquisizioni senza andare tanto per il sottile: molti iracheni hanno denunciato alle autorità americane la sparizione di soldi e oggetti preziosi, ma mancano le prove. A volte gli americani si basano su segnalazioni di iracheni che usano questo mezzo per consumare vendette personali. L’arroganza degli occupanti aumenta la rabbia degli abitanti, l’ostilità è sempre più tangibile e si traduce in resistenza che si fa sempre più armata. La rivolta è partita dalle zone conservatrici sunnite del triangolo che si estende da Baghdad verso ovest fino a Ramadi, poi sale fino al confine siriano e ritorna a est verso Tikrit, per ridiscendere a Balad e Baquba. Questo è ritenuto il triangolo di fuoco, dove si sono registrati gli attacchi più pesanti all’esercito americano. La scintilla era scoccata a Fallujah, dopo l’uccisione a fine aprile di sedici manifestanti, da allora la cittadina è diventata il simbolo della resistenza. Anche qui come a Najaf e Kerbala, gli imam avevano negoziato la non entrata degli americani in città, ma l’accordo non è stato rispettato. I “ribelli” rifiutano, non si sa se solo per opportunità, la matrice “saddamista”, dicono di rifarsi piuttosto al nazionalismo del partito Baath delle origini, i cui sostenitori, dice Kamal, un giovane meccanico, sono stati costretti all’esilio come altri oppositori. Kamal è sempre al corrente dei fatti di Fallujah, dove l’antiamericanismo nasce da una saldatura tra spirito nazionalista, appartenenza tribale e conservatorismo religioso che mal sopporta interferenze esterne. E sostiene che qui nessuno parla con gli americani, ma poi ammette: «anche qui ci sono delle spie, dei collaborazionisti, li conosciamo e saranno uccisi». L’esecuzione di collaboratori degli americani è già iniziata a Baghdad con l’assassinio della direttrice della centrale elettrica, Haifa Aziz Daoud. Seguito dall’uccisione a Ramadi di sette poliziotti iracheni addestrati dagli americani. I diversi volti della resistenza Se a Fallujah i ribelli rifiutano la matrice saddamista a Tikrit, città natale dell’ex rais, se ne vantano. Del resto se la comunità sunnita era stata sostanzialmente risparmiata da Saddam, che si è accanito soprattutto contro sciiti e kurdi, gli abitanti di Tikrit godevano di privilegi riservati solo alle tribù del rais, quindi hanno buoni motivi per rimpiangerlo. Non altrettanto gli sciiti che, insieme ai kurdi, più hanno subito le repressioni di Saddam. A parte i sanguinosi fatti di Majar al-Kabir – dove sono stati uccisi sei soldati britannici – gli sciiti per ora sono protagonisti solo di sporadici attacchi alle forze di occupazione. Forse perché più “riconoscenti” per essere stati liberati dal dittatore e anche per alcuni “privilegi” ottenuti grazie alla mediazione di leader religiosi. La rivolta però cova sotto le ceneri anche nel sud sciita. A frenare decisioni più impegnative è probabilmente la divisione tra i vari leader religiosi che aspirano alla guida della comunità. Per ora il tono si alza solo nei sermoni del venerdì. Forse attendono indicazioni dall’Iran (il paese a stragrande maggioranza sciita che ha dato ospitalità agli ayatollah iracheni in esilio), che potrebbe sfruttare la situazione irachena per cercare di esportare la propria crisi, proprio come aveva fatto Saddam negli anni Ottanta. La resistenza irachena è composita, a ribellarsi all’occupazione sono anche oppositori del vecchio regime, come nel sud, a Majar al-Kabir, dove a colpire i britannici sono stati i militanti del gruppo Hezbollah (che non ha nulla a che vedere con l’omonimo gruppo libanese) che hanno combattuto Saddam per vent’anni nascondendosi nelle paludi poi prosciugate dal rais. Un’altra forma di resistenza all’occupazione si manifesta attraverso i sabotaggi, sempre più numerosi, degli oleodotti. Questi sabotaggi minano alla base gli interessi degli occupanti che puntavano sull’esportazione dell’oro nero per finanziare la ricostruzione appaltata a compagnie americane oltre che per controllare i prezzi del petrolio sul mercato mondiale.

Pubblicato il 

11.07.03

Edizione cartacea

Nessun articolo correlato