La rinascita dello sciopero in Svizzera a partire dall’inizio degli anni 2000, una carrellata delle proteste più significative, l’approccio dal punto di vista sindacale, l’analisi del contesto politico e sociale in cui questo strumento di lotta ha ripreso vigore, i successi, gli insuccessi e le prospettive future. Questi, in estrema sintesi, i contenuti del libro “Scioperi nel 21° secolo”, in vendita da pochi giorni (edizioni Rotpunktverlag).
Un volume di 167 pagine (in tedesco, francese e italiano) edito dalla presidente di Unia Vania Alleva e dall’ex co-presidente Andreas Rieger, che raccoglie i contributi di un gruppo selezionato di storici, giornalisti e sindacalisti attivi, ma anche dati statistici sugli scioperi che hanno coinvolto Unia tra il 2000 e il 2016, fotografie e testimonianze dei protagonisti. In pagina proponiamo un breve “assaggio” del libro, da cui prendiamo anche spunto per una chiacchierata con Andreas Rieger, che ha curato la redazione.
Andreas Rieger, come è nata l’idea di questo libro? Dopo aver dedicato al tema un capitolo del libro sui primi dieci anni di Unia uscito nel 2015, abbiamo percepito la necessità di raccontare più ampiamente gli oltre cento scioperi registrati nella banca dati del sindacato a partire dal 2000, che rappresentano un’esperienza molto ricca. D’altro canto, in vista dell’anno del centenario dello sciopero generale del 1918, ci sembrava necessario sottolineare che lo sciopero non è una cosa vecchia e superata come alcuni tentano di dipingerlo, ma è uno strumento di lotta attualissimo, moderno e che ha futuro. Il libro vuole essere una sorta di manuale dello sciopero? Un manuale no: non esiste una ricetta dello sciopero, che si sviluppa sempre in situazioni molto concrete. Naturalmente dalle esperienze si può imparare e dunque i racconti e le analisi degli scioperi contenuti nel libro hanno anche un valore didattico. Nel senso di promuovere la cultura dello sciopero tra i lavoratori e nella società? Certamente. È importante che i lavoratori sappiano di questa misura di lotta, cui affidarsi quando tutte le altre vie per una possibile intesa si esauriscono. Fino a una ventina d’anni fa, complice anche la propaganda dei datori di lavoro, era opinione diffusa che in Svizzera lo sciopero fosse proibito. Fortunatamente questo tabù ideologico è caduto tra la fine degli anni Novanta e il 2000, anche grazie all’introduzione di una norma nella nuova Costituzione federale che prevede esplicitamente il diritto di sciopero. Sciopero che per riuscire presuppone però anche la speranza dei salariati che esso possa essere di aiuto a risolvere un conflitto. In questo senso la lettura del libro può aiutare, perché in esso si scopre che nella maggior parte dei casi gli scioperi hanno portato a una vittoria almeno parziale. E ciò è motivante per un salariato. Oggi il diritto di sciopero necessiterebbe di essere rafforzato sul piano legislativo e della giurisprudenza? Non per forza. Molti paesi possiedono una codificazione molto precisa del diritto di sciopero, eppure il suo esercizio viene nei fatti fortemente limitato. Del resto, solo raramente gli scioperi scatenano dei conflitti sul piano giudiziario: di regola essi si concludono con un’intesa tra le parti ed entrambe rinunciano a denunce e contro-denunce. In Svizzera è per contro necessario rafforzare la protezione dal licenziamento per attività sindacale. Come editore, quando ha letto per la prima volta i contributi sui vari scioperi dei diversi autori, ha scoperto qualcosa di sorprendente e inaspettato? Avendo vissuto di persona molti di questi scioperi ed essendo comunque informato su tutti gli altri, mi è difficile rispondere. È comunque chiaro che ogni sciopero è una storia a sé: le situazioni di partenza sono diverse, i padroni non sono tutti uguali e il contesto generale varia. Il recente sciopero presso la ABB di Sécheron (Ginevra) ha per esempio dato prova di una particolare creatività: non vi è infatti stata un’astensione dal lavoro in senso tradizionale; i lavoratori hanno smesso di lavorare alla produzione sulle macchine ma si sono dati da fare per individuare possibili soluzioni per salvare lo stabilimento di Sécheron e scongiurare la delocalizzazione in Polonia. E l’esercizio ha avuto successo. La grande maggioranza degli scioperi (tra le eccezioni quello dell’edilizia del 2002 che ha portato alla grande conquista del pensionamento a 60 anni) sono di natura difensiva, mirano cioè a salvare posti o condizioni di lavoro ma non a ottenere dei progressi. In Svizzera non si sono le premesse per ricorrere più frequentemente allo sciopero come strumento di conquista? È così. La maggior parte degli scioperi si sviluppa in un contesto di emergenza. Bisogna però dire che il mantenimento dei posti di lavoro è una rivendicazione di solo circa un terzo degli scioperi. Un altro terzo riguarda le condizioni di lavoro ed ha come obiettivo quello di non peggiorarle ma in parte anche di migliorarle. Si consideri poi che la maggior parte degli scioperi si sviluppa a livello aziendale, in cui è più difficile portare rivendicazioni migliorative rispetto per esempio a quando è coinvolto un intero settore professionale (si pensi all’edilizia). Nel libro si sottolinea che, a differenza che in Ticino e in Romandia, nella Svizzera tedesca è raro che le autorità politiche intervengano per mediare tra le parti in conflitto. Come si spiega questa differenza? È difficile da dire. Credo però che l’ideologia neoliberale porti molti politici a ritenere che lo Stato non debba immischiarsi nei conflitti sindacali. E poi nella Svizzera tedesca il padronato, in generale, non vede di buon occhio gli interventi delle autorità. In paesi come Francia, Italia e Spagna gli scioperi sono talvolta strumenti anche per portare rivendicazioni di carattere politico e sociale. Sarebbe impensabile in Svizzera? In Svizzera ci sono stati scioperi generali locali negli anni a cavallo del 1918, ma poi questa tradizione è andata persa. Un po’ perché in seguito si è fatto piuttosto ricorso all’iniziativa popolare e ai referendum per portare avanti rivendicazioni politiche e inoltre i socialdemocratici sono entrati nel governo. Una situazione simile si è registrata però anche in Germania, in Austria e nei paesi del Nord Europa. Forse anche per il fatto che oggi, a differenza di un secolo fa, non si prospetta uno sviluppo dello stato sociale o un rafforzamento del diritti del lavoro, ma al massimo la salvaguardia di quello che c’è? Questo è vero. Non mi immagino uno sciopero generale per il rafforzamento dell’Avs o per un’assicurazione malattia più sociale, ma se per esempio si prospettasse uno smantellamento dell’assicurazione contro gli infortuni o della stessa previdenza vecchiaia, uno sciopero politico non sarebbe da escludere. Nei prossimi anni c’è da aspettarsi un aumento degli scioperi o perlomeno un allungamento di quell’onda sviluppatasi a partire dal 2000? Penso di sì. Se quell’onda si è creata è fondamentalmente perché la situazione economica è abbastanza buona, ma i datori di lavoro non vogliono concedere di più e anzi pretendono tutta una serie di smantellamenti, decidono licenziamenti e ristrutturazioni senza consultarsi con nessuno, eccetera. Se, come probabile, il clima si mantiene questo, ritengo che nei prossimi dieci anni ci saranno sempre più scioperi.
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