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Uno si abitua, non ci fa più caso

di

Gianfranco Helbling
Li si vede di rado, costretti come sono sottoterra e, i più, a vivere in baracche nei pressi del cantiere ma lontano dal paese. Solitamente ci si ricorda di loro in occasioni speciali, ad esempio quando cade l’ultimo diaframma della loro galleria. Ma allora devono essere ben rasati, per favore, e con i vestiti puliti e stirati, sì anche la tuta di lavoro, ché ci sono i politici e la diretta tv. Per il resto, dei minatori che stanno costruendo le gallerie della Nuova trasversale ferroviaria alpina non importa nulla a nessuno. Se l’immenso progetto costa troppo, parla il politico. Se ci sono problemi geologici, tocca all’ingegnere. E se si discute del terreno sottratto all’agricoltura c’è posto perfino per un contadino davanti alle telecamere. Ma per i minatori mai. Eppure di cose interessanti da raccontare ne hanno tante. Sul loro lavoro, ad esempio, o sulle gallerie che stanno scavando, ma anche su di sé e sui luoghi da cui provengono. Ci parlano di fatiche e di paure, ma anche di sogni e di soddisfazioni. Ecco perché abbiamo scritto questo dossier dedicato ai cantieri di Bodio e Faido delle nuove gallerie ferroviarie ricorrendo alle loro voci e soprattutto alle loro emozioni. Ne emerge un quadro forse parziale ma certamente fedele del mondo del lavoro nella Svizzera del ventunesimo secolo, un mondo in cui le nazionalità si confondono sempre più ma nel quale non mutano né la fatica dei minatori, né il loro bisogno di solidarietà, né il dolore di chi deve lasciare la sua terra per guadagnarsi il pane. Per ascoltarne la voce e capirne le parole però occorre seguirli sottoterra, non quando i politici brindano ma quando le macchine sgretolano la roccia e le cariche di dinamite esplodono. L’impatto può essere forte, con i rumori, il buio, le vibrazioni, il calore, l’umidità, gli odori e la polvere, tanta polvere. Ma poi uno si abitua, dicono loro, e non ci fa più caso.

Pubblicato

Venerdì 8 Luglio 2005

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