"Uniti siamo forti" non è soltanto uno slogan

I compleanni servono a guardarsi indietro, a chiedersi cos’è stato e com’è che si è diventati ciò che si è oggi. È esattamente quel che accade all’Unione sindacale svizzera (Uss), che compie 125 anni. In questa intervista lo storico Adrian Zimmermann (1) ne rievoca alcune pietre miliari. In occasione del suo giubileo l’Uss sta preparando un libro che ne traccerà la storia. La sua pubblicazione è prevista nel corso del 2006. Adrian Zimmermann, come riassume in uno slogan la storia dell’Uss? “Uniti siamo forti”. La storia sindacale dimostra chiaramente la validità di questo slogan. La maggior parte dei successi sindacali è da ricondurre ad azioni unitarie, la maggior parte delle sconfitte si spiega invece con la mancanza di un’unità d’azione. Aggiungo però subito che se è vero che in 125 anni di storia i sindacati hanno ottenuto molto, è altrettanto vero che l’obiettivo di liberare gli operai dallo sfruttamento e dalla mancanza di autodeterminazione non è ancora stato raggiunto. Ma è realistico pensare che questo obiettivo possa un giorno essere raggiunto? Perseguirlo è un impegno costante. Mi posso comunque facilmente immaginare un’organizzazione sociale che ne faciliti il raggiungimento. Detto altrimenti: l’obiettivo del movimento operaio dev’essere la democratizzazione dell’economia, e in questo ambito abbiamo subìto piuttosto delle sconfitte negli ultimi tempi. I sindacati sono figli dell’industrializzazione. Ma l’industrializzazione ha superato da un pezzo il periodo di massimo fulgore. Anche i sindacati? È certamente vero che sono diminuiti gli impiegati del settore industriale. Ma è anche vero che le roccaforti del sindacalismo svizzero non sono mai state le industrie, quanto piuttosto l’edilizia e le imprese del trasporto pubblico e delle infrastrutture: e in questi settori i sindacati sono ancora molto forti. Nel settore dei servizi si osserva una dominanza nei trasporti e nelle comunicazioni di un tipo di impiegati paragonabile all’operaio del settore industriale e artigianale, mentre nella vendita e nella ristorazione sono impiegate maestranze soprattutto di sesso femminile e con un minor grado di tutela dei propri diritti. I sindacati devono rappresentare con particolare forza soprattutto gli interessi di queste fasce di manodopera particolarmente svantaggiate: lo esigeva già cent’anni fa Herman Greulich. Certo, a parte alcune eccezioni verificatesi soprattutto agli inizi delle organizzazioni professionali, i sindacati aderenti all’Uss non hanno mai escluso le donne o i lavoratori senza formazione specifica. Ma si può però dire che l’attività sindacale era tagliata su misura per le esigenze dell’operaio qualificato di sesso maschile, che era il membro tipico delle organizzazioni sindacali. E da ultimo: non vogliamo accettare passivamente la deindustrializzazione della Svizzera. La divisione fra Uss e Unione sindacale cristianonazionale all’inizio del ‘900 s’è rivelata utile o dannosa? Ci vedo soltanto un indebolimento del movimento operaio. Personalità di punta del movimento cristianosociale come Caspar Decurtins erano in un primo tempo contro la divisione, ma vi furono successivamente costrette dagli ambienti più reazionari della gerarchia ecclesiastica. Chi oggi sostiene ancora che la forza contrattuale dei sindacati aumenta grazie alla loro reciproca concorrenza misconosce la realtà dei fatti. Gli Stati nordici hanno il più alto grado di sindacalizzazione: e in quegli Stati non vi furono divisioni sindacali a dipendenza del rispettivo orientamento. Al contrario, in Francia ci sono addirittura organizzazioni sindacali di diverso orientamento all’interno della sinistra: e la Francia ha il più basso grado di organizzazione sindacale. Lo sciopero generale del 1918 fu una vittoria o una sconfitta? Lo sciopero generale diede alla maggioranza dei salariati la settimana di 48 ore. Era, e rimane ancor oggi, la più importante riduzione dell’orario di lavoro mai attuata in Svizzera. E il movimento sindacale poté difendere questa conquista nella prima metà del ventesimo secolo contro i successivi attacchi della destra borghese. In questo senso lo sciopero generale fu ben più che soltanto una vittoria morale. D’altra parte anche l’ala repressiva della borghesia, che del resto proprio con lo spiegamento delle truppe aveva provocato lo sciopero generale, poté rivendicare qualche successo. Il passaggio della Svizzera da una politica aperta verso l’integrazione degli stranieri ad una politica di naturalizzazione molto repressiva è da attribuire all’intensa attività che in quel periodo svilupparono le ronde di difesa dei cittadini. Considera l’accordo di pace del lavoro del 1937 come un modello o come un mito dell’azione sindacale? Dietro a quell’accordo c’era l’intenzione del governo di emanare un decreto federale per impedire il rincaro che avrebbe dato al Consiglio federale la competenza di risolvere quale arbitro e in maniera definitiva i conflitti del lavoro. Questa sarebbe naturalmente stata una grossa ingerenza nella libertà di coalizione, per cui il sindacato Flmo e l’Associazione padronale svizzera dell’industria metalmeccanica (Asm) si accordarono per una procedura bilaterale di appianamento e soluzione dei conflitti. Quel che noi oggi chiamiamo “Accordo di pace” altro non è che questo accordo. Soltanto in un secondo tempo s’è sviluppato fino a diventare uno un vero e proprio contratto collettivo di lavoro (Ccl), uno dei più importanti in Svizzera. Sempre nel 1937 ci fu però anche il primo Ccl nelle industrie del cioccolato e dell’orologeria, nonché il primo contratto nazionale mantello dell’edilizia. Gli ultimi due citati furono possibili soltanto grazie alla mediazione da parte dello Stato. Inoltre le associazioni padronali, il governo e i sindacati si misero d’accordo pure su una formulazione comune degli articoli economici, anche se questi furono poi effettivamente iscritti nella Costituzione soltanto dieci anni dopo. Nella memoria nazionale tutto questo ha finito per confondersi, per cui è nato il mito dell’“Accordo di pace” come la maniera tipicamente svizzera di regolare le relazioni fra le parti sul mercato del lavoro. Coloro che sono critici nei confronti del mito ricordano che è soltanto con i Ccl ottenuti in seguito a degli scioperi nella seconda metà degli anni quaranta (tessili, abbigliamento, chimica, scarpe) che l’idea dei Ccl ha potuto effettivamente affermarsi in Svizzera. E va detto che su questo punto hanno ragione, tanto più che la possibilità di dichiarare di obbligatorietà generale i Ccl è stata introdotta soltanto nel 1941. Riassumendo: è in tutto il periodo compreso fra il 1937 e il 1950 che i sindacati, con strategie di volta in volta diverse, hanno potuto conseguire un’importante affermazione. Condivide l’opinione secondo cui le trattative sui Ccl sono oggi altrettanto difficili che negli anni ’30? No, anche se le argomentazioni dei promotori delle deregolamentazioni assomigliano in maniera molto preoccupante a quelle in voga negli anni ’30. Ma la copertura garantita dai Ccl è oggi molto migliore. Inoltre nel 1929 erano stati disdetti da parte padronale molti Ccl nazionali. La densità normativa di cui si lamentano spesso oggi i datori di lavoro nelle trattative sui Ccl è un risultato del periodo compreso fra il 1950 e il 1970. Va tuttavia detto che rispetto ad oggi negli anni ’30 c’era una maggiore coscienza di classe dei lavoratori, che si rifletteva in un maggior grado d’organizzazione. Pensa anche lei che le misure d’accompagnamento alla libera circolazione delle persone rappresentano un salto di qualità per i sindacati? Lo possono diventare, a condizione però che i sindacati le sappiano anche effettivamente imporre nella pratica quotidiana. Si può tratteggiare la storia dell’Uss come una sintesi sia della solidarietà fra le federazioni in essa associate, sia della concorrenza fra di loro? Posta così la domanda non centra la questione. Perché la lotta diretta fra federazioni ad esempio per delimitare il proprio campo di organizzazione è stata soltanto un fenomeno marginale. È vero però che il rapporto fra i grossi sindacati e l’Uss non è mai stato, diciamo così, disteso. I grossi sindacati avevano sempre la possibilità di far passare le loro richieste, cosa che per i più piccoli costituiva proprio il motivo decisivo per la loro adesione all’Uss. L’acceso conflitto fra l’Uss e la Flmo fra la fine degli anni ’30 e l’inizio degli anni ’40, con in testa i loro principali esponenti Max Weber e Konrad Ilg, va ricondotto in definitiva proprio a questa problematica. In quali ambiti la ricerca storica sui sindacati presenta le principali lacune in Svizzera? Si sono fatte buone ricerche per il periodo precedente alla prima guerra mondiale, e anche il periodo successivo fino al 1939 è abbastanza ben coperto. In generale appare evidente che la storiografia presta più attenzione alla componente politica del movimento operaio, quindi a delle minoranze all’interno dello stesso quali i comunisti e gli anarchici, che non ai sindacati. Vi sono ad esempio grosse lacune nella ricerca sulla politica contrattuale, il centro dunque dell’attività sindacale. Molto si è fatto per contro negli ultimi tempi in ambiti di ricerca quali sesso e sindacato o migrazioni e sindacato. L’opera che verrà pubblicata nel 2006 colmerà questa lacuna? Non esaurirà l’argomento, ma dovrebbe fornire spunti perché si possa fare più ricerca in questa direzione. * Uss 1) Adrian Zimmermann sta redigendo attualmente una tesi di dottorato che paragona le basi della politica contrattuale in Svizzera e Olanda. È uno degli autori del libro sui 125 anni di storia dell’Uss che, con un po’ di ritardo, dovrebbe uscire nel 2006 (cfr. l’articolo a pag. 10).

Pubblicato il

28.10.2005 02:30
Ewald Ackermann