Quanto è lunga la litania di parole e di fatti con cui si continua a cantare i fasti ma anche, con immensa contraddizione, i nefasti dell’economia imperante. Globalizzazione o liberoscambio, cui si oppone ormai protezionismo, a cominciare da chi ce li ha imposti (gli americani); liberalizzazione, così devastatrice del servizio pubblico da dover richiedere l’intervento dello Stato e delle sue finanze per porre qualche pezza (v. servizio postale, energia elettrica, ferrovie, salute); delocalizzazione delle produzioni mettendo i lavoratori gli uni contro gli altri, tanto negativa nelle conseguenze da dover ripescare il patriottismo per ottenere voti e alzare muri; mitizzazione del prezzo basso comprimendo i salari, precarizzando il lavoro, evitando il fisco ma sempre riuscendo ad alzare i profitti; finanziarizzazione di tutto, tanto che dell’oligarchia finanziaria che si rafforza paradossalmente crisi dopo crisi non ci si libera perché ha imbrigliato la politica e tutta la società; insicurezza come condizione umana permanente e non tanto per il terrorismo. Il tipo di economia impostoci e affermatosi, tanto da intrappolarci tutti come fosse l’unica alternativa che dà benessere e felicità, è fondato su dei dogmi: ogni cosa va misurata con il denaro, il mercato è l’unico giudice credibile, nessuna azione è giustificata se non dà una redditività immediata, criteri imperativi sono la competitività o la concorrenza che si ottengono comprimendo i costi, principalmente i costi del lavoro (salario); conta ciò che si realizza nel breve tempo (cortoterminismo, assenza di progettualità); l’espansione continua (la crescita) è il motore vitale e quindi anche la natura va usata per alimentarlo. Oggi ci si rende sempre più conto di due enormi contraddizioni che hanno mandato a sballo il paradigma. Primo, se comprimi i redditi, i salari, comprimi anche la domanda, la produzione, la crescita. Che potrai quindi sostenere solo se creerai redditi artificiali (indebitamento privato che crea a sua volta l’indebitamento pubblico; fortuna quindi della finanza e delle banche). Secondo, il mondo è finito, la natura è finita, la crescita – nonostante la grande fiducia nella tecnologia – non può essere infinita, l’economia ha dei limiti. L’orizzonte esistenziale della nostra epoca è quindi ormai occupato da due fattori: l’ingiustizia o le disparità accresciute dal sistema che hanno in sé una carica esplosiva enorme; la crisi ambientale che incombe tanto su tutto il pianeta quanto, in forme specifiche e differenti, su ogni sua singola porzione. Pessimismo? No. Coscienza che un nuovo “paradigma-uomo” deve prendere il posto di quello fallimentare. Lo si chiami poi decrescita, sobrietà, conversione ecologica, giustizia sociale e ambientale o economia dei beni comuni, è l’unica via d’uscita che può garantire equità nella distribuzione delle risorse, salvaguardia degli equilibri ecologici, ricupero delle conoscenze ed esperienze o del patrimonio del lavoro. Proprio il contrario di ciò che il sistema attuale in cui ci ci siamo impelagati ha mandando alla malora.
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