La formazione nel contesto carcerario costituisce un fattore di prevenzione della recidiva e facilita il rientro del detenuto nella società. Si tratta di un principio sempre più largamente condiviso che nel 2007 è stato tradotto in legge con l'entrata in vigore dell'articolo 82 nel Codice penale svizzero. Esso stabilisce che «al detenuto idoneo deve, per quanto possibile, essere data la possibilità di acquisire una formazione e un perfezionamento corrispondenti alle sue capacità». A quasi tre anni di distanza, l'applicazione di questa disposizione è però ancora lacunosa a livello svizzero.

Le differenze da cantone a cantone sono enormi e spesso il servizio è garantito solo grazie all'intervento di associazioni di volontariato. Tra le realtà all'avanguardia spicca quella ticinese, dove da tre anni il supporto degli specialisti della scuola pubblica garantisce agli ospiti della Stampa e della Farera una formazione di qualità e orientata prevalentemente al loro reinserimento sociale.
«La formazione all'interno del carcere si fa da sempre, ma storicamente le iniziative prese pongono al centro dell'attenzione la vita quotidiana della struttura e mirano essenzialmente a mantenere un clima di armonia al suo interno», spiega Luisella De Martini, presidente dell'Associazione svizzera di patronato e capo dell'Ufficio cantonale ticinese dell'assistenza riabilitativa. «Questo contesto ha favorito lo sviluppo di attività di tempo libero (che possono andare dai corsi di ceramica alle lezioni di storia o di lingue) non finalizzate alla formazione professionale e non in concorrenza con l'attività lavorativa su cui si è sempre basata l'organizzazione delle carceri svizzere».
Questa, prosegue la nostra interlocutrice, è un'impostazione molto radicata nella Svizzera tedesca. I cantoni romandi e soprattutto il Ticino hanno invece imboccato una strada diversa, a partire dal convincimento che il reinserimento sociale e professionale di un recluso deve iniziare già durante la detenzione. Di conseguenza la formazione deve avere questo obiettivo preciso e non essere coinsiderata come un "calmante della quotidianità carceraria". Dopo la liberazione infatti la persona deve reimparare a provvedere al proprio mantenimento, ricostruirsi una vita e dunque non ha il tempo per pensare alla formazione, sottolinea Luisella De Martini, ricordando come il carcere sia «parte integrante della società (nonostante i penitenziari siano perlopiù ubicati in zone discoste) e come tale vada considerato».
I due tipi di approccio si possono spiegare con ragioni di carattere culturale: «È risaputo -afferma De Martini- che al nord, protestante, domina una visione del rapporto tra l'individuo e la società, in cui la responsabilizzazione del primo assume un'importanza maggiore rispetto al principio di coesione per la solidarietà delle società a prevalenza cattolica. Non è un caso che il modello ticinese di formazione in carcere sia molto simile a quello italiano, nonostante i due sistemi si siano sviluppati in modo del tutto indipendente o che, all'inverso, il lavoro di pubblica utilità (che oggi la legge considera a tutti gli effetti un'alternativa alla privazione della libertà) abbia preso maggiormente piede nei cantoni tedescofoni».
Ma, al di là delle differenze culturali, secondo l'esperta sarebbe ora auspicabile uno «sforzo di armonizzazione» affinché in tutta la Svizzera «non si faccia più dipendere la formazione all'interno delle carceri dal merito del condannato ma la si consideri uno degli elementi su cui si fonda il cambiamento della persona e il reinserimento professionale».
Un interessante progetto pilota, promosso da Soccorso operaio svizzero (Sos) e finanziato dalla fondazione zurighese Drosos con un contributo di 5 milioni di franchi, è in corso in sette istituti penitenziari della Svizzera tedesca dal giugno 1997 e (da agosto di quest'anno) anche in due della Svizzera romanda.
Le prime valutazioni saranno eseguite questo autunno dall'università di Friburgo e in seguito la Conferenza dei direttori dei dipartimenti cantonali di giustizia e polizia (Cddgp) prenderà una posizione ufficiale, ci spiega Stefan Leutert, collaboratore scientifico della Cddgp. Da coloro che operano direttamente sul campo giungono però già valutazioni molto positive dell'esperimento. «Un carcere senza scuola non riuscirei più nemmeno ad immaginarmelo», afferma per esempio Erhard Stock, direttore del carcere di Affoltern am Albis (presso Zurigo), proprio dove nacque l'idea. «Qualche anno fa - spiega Stock- avevamo troppo poco lavoro da offrire ai nostri detenuti e così ci venne l'idea di puntare sulla loro formazione». Oggi praticamente tutti i 65 ospiti della struttura penitenziaria zurighese trascorrono mezza giornata alla settimana sui banchi di scuola per imparare a leggere o a scrivere, ma anche per acquisire conoscenze di informatica, di storia e di geografia del nostro Paese. Qualunque forma di insegnamento pare essersi rivelata un successo: il direttore del carcere già constatata «una sempre maggiore intesa tra i detenuti ed il personale», così come un «rasserenamento del clima generale» all'interno della struttura. Stock si dice inoltre convinto che l'insegnamento all'interno del carcere «faciliterà di molto il ritorno dei detenuti alla vita di liberi cittadini». L'apprendimento di una lingua come il tedesco darà questa garanzia a coloro che continueranno a vivere in Svizzera, ma anche a coloro che una volta espiata la pena dovranno fare rientro in patria, dove per esempio sarebbero facilitati a svolgere una professione nell'ambito del turismo.
A Zurigo il progetto pilota è insomma stato promosso: l'autorità cantonale ha già deciso che dal 2010 si assumerà l'onere di finanziare con 240 mila franchi all'anno la prosecuzione del progetto presso la prigione di Affoltern am Albis ed eventualmente la sua estensione ad altre strutture del Cantone che hanno già manifestato il loro interesse.
La distanza con il "modello ticinese", il più evoluto a livello svizzero, sembra insomma diminuire.

Il Ticino non fa differenze tra cittadino e detenuto

Lugano – Si imparano le lingue, la matematica, l'informatica, la storia e altre materie, ma si può pure seguire un apprendistato nei settori falegnameria, cucina, legatoria e stampa. L'offerta di "In oltre" è quella di una scuola tradizionale, i docenti che vi operano sono dei professionisti del settore pubblico ticinese, mentre gli allievi sono persone che vivono l'amara esperienza del carcere. Inaugurato nel 2006 con corsi dedicati ai minorenni in detenzione preventiva presso il nuovo carcere giudiziario della Farera, questo particolare istituto ha riaperto i battenti lunedì (con una settimana di ritardo sul calendario scolastico ufficiale) e ancora una volta ha sucitato grande interesse tra i detenuti del penitenziario cantonale, che si sono iscritti in massa ai corsi, costringendo addirittura gli organizzatori a porre qualche limite nella scelta delle materie: saranno infatti 95 i detenuti adulti (su 120) che quest'anno frequenteranno la scuola o seguiranno una formazione professionale biennale. I corsi sono invece obbligatori per i minorenni.
La scuola (parte integrante della Scuola professionale artigianale - Spai- di Locarno) è stata creata due anni fa grazie ad una proficua collaborazione tra i Dipartimenti cantonali dell'Interno e dell'Educazione, l'Ufficio di patronato e il professor Mauro Broggini, colui che ha ideatore In-oltre a partire dalla sua esperienza di docente mediatore e sulla spinta di una grande carica ideale. Oggi In-oltre costituisce un unicum a livello svizzero che pone il Ticino all'avanguardia rispetto a tutti gli altri cantoni.
«Si tratta di un progetto nato dal basso e sviluppatosi grazie al sostegno attivo dell'autorità cantonale che risponde al reale bisogno di normalizzazione all'interno delle strutture carcerarie», spiega Luisella De Martini, capo dell'Ufficio di patronato. Mentre nella Svizzera tedesca sono in corso dei progetti pilota (vedi articolo principale) che propongono corsi base soprattutto per carcerati stranieri con scarse competenze linguistiche e corsi specifici per migliorare le capacità di vivere in società, in Ticino è stata operata «una scelta più radicale, partendo dal principio che non c'è differenza tra l'esigenza formativa di un cittadino e quella di un detenuto». «Il carcere non è un mondo a parte e la società ha il dovere di dare una chance anche a coloro che non si sono attenuti alle regole che essa si è data», argomenta De Martini, sottolineando come la formazione sia fondamentale per "allontanare" chi ha sbagliato, in particolare i più giovani, dalla giustizia penale: «La scuola apre una finestra sul mondo e contribuisce ad abbassare il livello di tensione all'interno di una struttura e ad impedire che questa si riveli una "scuola del crimine"».
Grazie a In-oltre, il Ticino ha saputo riunire giustizia e formazione in un unico progetto a cui ciascuno contribuisce con il proprio sapere. Naturalmente non sono mancate le difficoltà, come quelle dovute alle incomprensioni tra i docenti e gli agenti di custodia, che per loro natura devono badare ad aspetti diversi. «Ai primi è così capitato di essere guardati con sospetto non solo dai detenuti ma anche dagli addetti alla sicurezza, per i quali ogni persona che entra in carcere  rappresenta una potenziale minaccia. D'altro canto, il docente di educazione visiva ha bisogno di forbici e taglierini, strumenti di lavoro che non possono che creare apprensione nell'agente di custodia. Sono dunque stati necessari grossi sforzi di integrazione e di reciproca comprensione, affinché il docente accettasse le regole particolari del carcere e gli agenti riconoscessero il valore degli insegnanti e la bontà del progetto», conclude Luisella De Martini.   

Garanzia di un clima sereno

«Ho sempre pensato che la formazione scolastica fosse un pilastro della società civile, ma lavorando all'interno di un carcere ho potuto rendermi ancora più conto dell'utilità di istituire una vera e propria scuola all'interno del penitenziario». Questo il pensiero del direttore delle strutture carcerarie ticinesi Fabrizio Comandini, che così spiega i benefici per il detenuto: «La formazione non gli permette solo di acquisire delle nozioni, sviluppare dei ragionamenti ed esercitare le proprie competenze relazionali, ma gli dà pure una "struttura giornaliera" da rispettare, degli strumenti utili alla sua reintegrazione in quella società dalla quale è temporaneamente rimasto escluso per poter espiare la pena».
«Nel contempo -prosegue Comandini- la scuola serve alla struttura carceraria stessa, la quale, approfittandone in termini forse un po' utilitaristici, si vede ampliare le possibilità di impiego per i detenuti. In più essa garantisce un clima generale più sereno e aperto, il che non può che giovare alla sicurezza di tutti», conclude il direttore.
A coloro che considerano inutili gli sforzi di formazione all'interno delle carceri, Comandini può dunque rispondere con certezza che si sbagliano di grosso.

Pubblicato il 

11.09.09

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