Parafrasando il noto detto greco “tutto si muove e nulla sta fermo”, potremmo affermare che con il capitalismo tutto muta e nulla è stabile. Ma sarebbe un abbaglio. Qualcosa resta immutato: la concentrazione in poche mani della ricchezza creata. Un paio di esempi: il primo riguarda il “made in Switzerland”, orgoglio nazionale, conosciuto in tutto il mondo per l’alta qualità: precisione, affidabilità e longevità; una performance frutto di un’organizzazione del lavoro centrata su collaboratori in possesso di preziose competenze tecniche e abilità manuali. Un connubio secolare. Poi il cambiamento: tra il 2008 e il 2017, 50mila posti di lavoro cancellati, di cui 30mila nel solo settore che raggruppa le aziende attive nei rami metalmeccanica ed elettrica (Mem) – fiore all’occhiello da sempre dell’industria Svizzera. Posti di lavoro qualificati sono stati delocalizzati nelle filiali create nell’Est Europeo (soprattutto Polonia, Cechia, Slovacchia, Lettonia). «Non perché l’azienda era in deficit, ma perché da noi i costi del lavoro sono troppo alti». In quei paesi, spiega Jacques Sanche Ceo della Bucher group in un lungo articolo della Nzz, abbiamo trovato un alto livello di competenze manuali, ma anche costi salariali globali ben al disotto di quelli svizzeri. Dove di produttivo rimane sempre meno. Il “made in Switzerland”, seppur edulcorato, è salvo; come pure salve sono le aziende che possono tenere la rotta nel mare della concorrenza e del libero scambio, distribuendo utili ai loro azionisti; mentre le maestranze qualificate a livello di competenze manuali, pilastro della produzione, perdono sempre più il lavoro e stentano a trovarne un altro. Il secondo esempio riguarda la scoperta di una nuova “vacca d’oro” da cui trarre ricchezza. È l’informazione che circola in forma digitale sulla “rete”, che tutti, proprio tutti coloro che usano un apparecchio (cellulare, tablet, pc) forniscono: chattando, inviando un sms, acquistando un prodotto via web, scaricando un file ecc. Miliardi e miliardi di bit al secondo che dapprima memorizzati, poi setacciati e organizzati secondo criteri specifici dall’intelligenza artificiale, diventano un patrimonio informativo riguardante abitudini, consumi, scelte, pratiche di persone nel mondo, giù giù fino al singolo paese. Informazioni che sono utili per capire e cogliere orientamenti, preferenze desideri, bisogni, idee “appetibili” ad aziende (ma anche a politici). Informazioni e dati che sono un nuovo fattore economico, come ricordato da Silvano Toppi (area del 5 aprile 2019). Fattore inaccessibile fino a 10 anni orsono, ma oggi comunque solo a chi dispone di potenti mezzi tecnologici e finanziari. Ovvero le “big corporation”. Risultato: esse accumulano conoscenze, ricchezza e potere, a scapito della maggioranza di coloro che la producono. Mentre il potere istituzionale pubblico asseconda dogmaticamente quanto avviene, e quando è critico appare incapace di apportare cambiamenti. Come uscire e da dove cominciare per contrastare e governare il cambiamento che David Harwey chiama provocatoriamente «il nostro movimento rivoluzionario anticapitalista»: dai concetti? dalla relazione con la natura? dalla vita quotidiana? dalle relazioni sociali? dalla tecnologia? dai processi di lavoro e forme organizzative ? o dalla presa del potere istituzionale e la sua trasformazione rivoluzionaria? La sola strategia vincente per superare l’impasse capitalista e assumere il comando sociale di produzione e distribuzione della ricchezza creata, è “mettere in rete” la variegata gamma delle forze sociali attive singolarmente sui vari fronti – tecnologico, scientifico, industriale, ambientale, civile e politico amministrativo. Una sorta di riscoperta della necessaria unione di intenti di forze che oggidì sono sparpagliate e/o poco comunicanti.
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