Cuba dopo Castro

Che dopo sei decenni turbolenti Cuba, la Cuba castrista, con le sue grandezze e le sue miserie, sia ancora lì, ammaccata ma in piedi, a sole 90 miglia dalla Florida, è un miracolo. Ora che per la prima volta in 59 anni alla testa di Cuba non c’è più un Castro, su quel miracolo, senza più il carisma di Fidel e il pragmatismo di Raúl, si apre un ventaglio di incognite, piene di rischi ma anche di opportunità.


La transizione cubana è stata preparata con cura da Raúl: 87 anni, dopo una vita da ministro della difesa, 12 anni da numero uno e conclusi i due mandati da presidente della repubblica e capo del governo, il 19 aprile ha annunciato ai 605 deputati dell’Assemblea nazionale la sua uscita di scena e l’entrata di Miguel Díaz-Canel, insieme a una serie di nomine che segnano l’accantonamento degli “historicos” e l’ascesa di una nuova generazione di “giovani” (più o meno). Gente nata dopo la rivoluzione, come Díaz-Canel che ha 58 anni.
Díaz-Canel, poco conosciuto fuori da Cuba (e probabilmente anche dentro), è ora il presidente del Consiglio di Stato (31 membri, la presidenza collettiva della repubblica) e del Consiglio dei ministri. Ha fatto il suo cursus honorum nell’ambito del Partito Comunista (è membro del Politburo) e della burocrazia statale (era già vicepresidente della repubblica). Raúl, con le dovute maniere, ha dato un bello scossone: il 42% del Consiglio di Stato è nuovo, le donne sono il 48% e i neri o non bianchi il 45%, alcuni esponenti della gerontocrazia cubana (come José Ramón Machado Ventura, 87 anni, e il generale Àlvaro López Miera, 75 anni) sono stati insigniti di onorificenze, ringraziati e congedati.


Un ricambio per ora più generazionale che politico, perché Raúl ha lasciato sì la presidenza della repubblica e del governo ma non il ruolo-chiave di primo segretario del PC, che dovrebbe abbandonare nel 2021 per trasferirlo allo stesso Díaz-Canel. E perché il nuovo leader nel suo primo discorso ha confermato in pieno “la linea”: andare avanti con le riforme e le aperture economiche tracciate da Raúl e necessarie (specie adesso che il fraterno aiuto del Venezuela chavista è crollato) anche per attrarre investimenti stranieri; combattere burocrazia e corruzione; rispondere alle aspirazioni della popolazione, specie delle giovani generazioni, cui non bastano più la sanità e l’istruzione gratuite e che dopo decenni a tirare la cinghia aspira a lavori migliori, salari decenti, una vita meno faticosa, a internet e netflix; ma anche nessun cambio sostanziale nell’impalcatura politica dello stato socialista cubano.


Nel 2011 Raúl annunciò l’adozione di 313 riforme, nel 2016 solo il 21% di quelle riforme è stato attuato. Forse quella più importante, l’unificazione della doppia moneta – il peso cubano che non vale praticamente niente e il peso convertibile che vale un dollaro –, responsabile di una devastante doppia economia, è ancora di là da venire.


Díaz-Canel e la nuova generazione sono attesi da uno “stress test” estremamente impegnativo. Tanto più da quando l’appeasement con gli Stati Uniti di Obama – allentamento del blocco nel 2014, riapertura dopo 54 anni dell’ambasciata nel 2015, storica visita nel 2016 del primo presidente afro-americano nell’isola ribelle – ha lasciato il posto al ritorno alla politica punitiva di Trump che nel giugno 2017 ha annunciato l’intenzione di “cancellare” le  aperture di Obama e nell’ottobre successivo si è inventato il pretesto degli “attacchi acustici” al personale dell’ambasciata all’Avana per ridurre al minimo – in pratica azzerare – l’attività diplomatica.
L’abbandono del soft power di Obama e il ritorno al big stick di Trump hanno provocato un taglio secco alla spettacolare ripresa dei rapporti e un inevitabile irrigidimento difensivo del regime cubano. Le recenti nomine di ultra-falchi da parte di Trump – John Bolton a consigliere per la sicurezza nazionale e Mike Pompeo a segretario di stato – fanno temere che il peggio debba ancora venire.

Pubblicato il 

03.05.18
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