Le storie che racconto in questa rubrica sono vere: luoghi, fatti, persone, cose, sono sempre presi dalla realtà. Anche quelli di oggi.
Nel palazzo Suglio dell’Ubs a Manno si trovava nelle scorse settimane una mostra organizzata dalla Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (Supsi) dal titolo “Costruire il territorio, costruire nel territorio”.
In cinquanta piccoli pannelli tematici erano illustrati in modo sintetico duecento anni di trasformazione del territorio ticinese, con le grandi infrastrutture (strade, ferrovie, correzioni fluviali, linee elettriche, ecc.) e l’architettura (dal neo-classico, all’eclettismo, al liberty, all’architettura moderna, alla contemporaneità). Vorrei però parlare dapprima dell’ambiente che ho scoperto visitando la mostra.
Dopo aver lasciato l’automobile nel posteggio per i clienti della banca, passando attraverso una porticina, sono sbucato in una hall lunga più di cento metri, larga otto e alta cinque. Un deserto.
Sul lato lungo della hall v’è un interminabile dipinto a strisce ondeggianti dell’artista americano Sol Lewitt, chiamato apposta da New York per questa enormità. Ogni tanto il “Wall Drawing 1998” (titolo dell’opera) è interrotto dalle porte che danno accesso al posteggio. Pazienza: porte secondarie, radiatori, griglie di ventilazione, armadi elettrici cosiddetti a scomparsa, sono maledizioni che affliggono da sempre le opere d’arte nei palazzi moderni.
In fondo alla hall un’insegna in acciaio al nickel-cromo e alcune sedie d’alluminio annunciano un bar interno, naturalmente chiuso. Nel gigantesco spazio, nessuno. Salvo, ad un certo momento, un frate cappuccino, in saio cinquecentesco, con cordone, sandali, calzerotti, calzoni penzolanti sotto la tonaca e una grande borsa di pelle nera in mano. Esce da una porta con la scritta Clienti, dopo averla aperta con un suo tesserino particolare, cava un telefonino dalla tasca e, camminando a passo spedito lungo i centoventi metri della hall, conversa animatamente con qualcuno.
Chissà se vige ancora il voto di povertà. Mah?
Nel bel mezzo dell’atrio, tra pilastri giganti di cemento armato, naviga tranquilla e leggera la piccola mostra della Supsi. L’incongruente apparizione del frate si è intanto dissolta nell’enorme vuoto bancario. A questo punto mi viene da pensare che al di là dell’indubbia qualità del lavoro degli architetti quella hall e “la vita” che vi si svolge sono una specie di simbolo perfetto della megalomania bancaria (o banchiera?) degli anni ’80 e ’90 nel Cantone Ticino e, appunto, delle sue incongruenze.
Quell’esaltazione ha lasciato indietro nella diffusa città ticinese alcune cattedrali semivuote, di cui non si sa bene cosa fare, perché sono edifici spropositati rispetto alla misura del paese e rispetto ad un’idea ragionevole di sviluppo dell’economia e del territorio.
La modesta mostra della Supsi è, viceversa, rassicurante.
Alcuni autori che hanno lavorato per temi (cito ad esempio Paolo Fumagalli e Dario Galimberti, per l’architettura, Fabio Pedrina per l’ambiente, Giancarlo Re per l’ingegneria, Antonio Gili per la storia di Lugano, e mi scuso di non citare per ragioni di spazio tutti gli altri) sono riusciti a contenere in 50 pannelli di 60 per 60 centimetri, una serie di informazioni concise ed oggettive su duecento anni di trasformazioni territoriali nel Ticino, senza grandi pretese critiche e senza forzature, evitando le forme autoreferenziali che accompagnano di regola la divulgazione dell’architettura.
La mostra della Supsi meriterebbe perciò di fare il giro del Cantone nelle Scuole superiori, nei Municipi, nelle vetrine spesso vuote delle banche, che potrebbero così riparare almeno un poco alle loro passate iperboliche euforie.
|