Una folle spirale di violenza

Se, pur al di là di ogni considerazione etica: • freddare con colpi alla testa combattenti ormai sconfitti portasse alla tregua; • lasciare morire dissanguati i feriti nelle strade gettasse i semi del dialogo; • impedire le cure ai malati nei letti degli ospedali portasse al negoziato; • picchiare e torturare i prigionieri in carcere portasse alla resa di tre milioni e mezzo di palestinesi; • malmenare i pacifisti, sparare ai giornalisti, mirare ai frati favorisse la reciproca comprensione; • affamare decine e decine di migliaia di persone aiutasse a far comprendere le proprie ragioni; • rastrellare città e villaggi, catturare centinaia, migliaia di giovani, di uomini, distruggere case e devastare campi, terrorizzare donne e bambini facesse cessare in via DEFINITIVA gli allucinanti, agghiaccianti, attacchi suicidi… se… …ma sappiamo che non è così. E allora, visto che gli ultimi barlumi di speranza nella cessazione del massacro sono riposti nelle pressioni che possono giungere dall’esterno, perché tanta ferocia, perché tanta distruzione, perché tanto sangue? Nessuno fino a questo momento ha trovato una risposta esaustiva, scontato il fatto che la motivazione ufficiale a tanto orrore, «porre fine al terrorismo palestinese» non è convincente. Non lo è almeno nella accezione che si deve dare al termine «terrorismo» in Medio Oriente. Possono essere considerati atti di terrorismo esecrabile e inaccettabile, i massacri compiuti dai kamikaze in Israele, attentati che distruggono molte più vite di quelle che lasciano sul terreno perché generano solo odio e violenza gettando i semi per ulteriori violenze omicide. Ma per Sharon non è così: ai suoi occhi è funzionale definire terrorismo qualsiasi azione di guerra condotta dalla resistenza palestinese. Sono terroristi i militanti che attaccano, in Cisgiordania come nella striscia di Gaza, i soldati, che fanno saltare in aria i carri armati o che prendono di mira colonie, erette nei territori palestinesi. (1) In realtà, Sharon sa benissimo che la resistenza dei palestinesi all’occupazione non può essere liquidata semplicemente come terrorismo. Lo sa perché l’attuale premier israeliano appartiene a quella generazione di ebrei che ricorse a ogni arma, terrorismo compreso e in primo luogo, per lottare dapprima contro gli inglesi, che occupavano la Palestina, e contro gli arabi poi, che si opponevano alla colonizzazione ebraica. (2) E forse proprio in questo suo appartenere alla generazione dei fondatori di Israele, è possibile trovare una qualche spiegazione al suo attuale comportamento. L’anziano militare, ancorché generale, non ha mai smesso la divisa di uomo di frontiera, di colono-soldato saldo nelle sue convinzioni, tutto d’un pezzo. Per i palestinesi la parola Sharon significa massacro, e non solo per l’eccidio di Sabra e Chatila. Fra le sue imprese più brutali figura la rappresaglia nel 1953, dopo un attentato alla bomba, nel villaggio giordano di Kibya. L’unità comandata da Sharon fece saltare in aria una quarantina di abitazioni. Fatto è che non erano state svuotate dai loro abitanti: dalle macerie vennero estratti 69 cadaveri, molti i bimbi e le donne. Non a caso lo scrittore Uri Benziman ha dato a una sua biografia dell’attuale premier il titolo «Non si ferma al rosso». Mentre un Peres e un Arafat, fra le tante ambiguità, ragionano avendo quale punto di partenza il 1967, quella guerra dei Sei giorni che modificò irrimediabilmente i rapporti fra Israele e il mondo arabo, Sharon no. Egli rimane un uomo del 1948. Il suo credo politico, osserva Saleh Bechir sul «Courrier International» è basato su un nazionalismo assoluto che non ammette cedimenti…di terre. D’altronde fu proprio il premier israeliano, alcune settimane or sono, a dichiarare che la guerra di oggi è la continuazione di quella d’indipendenza del 1947-48. Il nemico non è il fondamentalismo Per Sharon, l’11 settembre è l’occasione unica e irripetibile per risolvere una volta per tutte la «questione palestinese». Così si comprende come mai l’offensiva israeliana sia diretta esclusivamente contro Yassir Arafat e la sua Autorità. È il vecchio leader a ergersi come il simbolo del nazionalismo palestinese. È Arafat l’avversario frontale di Sharon, il rovescio della sua medaglia, mentre non lo sono i dirigenti di Hamas e del Jihad islamico. A minacciare l’Israele di Sharon non sono i fondamentalisti religiosi (anche se è da loro che giungono i più sanguinosi attentati), ma il laicismo di Arafat, che propugna lo Stato palestinese, da costruirsi attraverso strumenti democratici, e non uno Stato islamico, teocratico e antistorico, privo delle più elementari visioni politiche. Come altrimenti spiegarsi, osserva sempre Saleh Bechir, il fatto che i responsabili di Hamas e Jihad siano solo raramente oggetto di rappresaglie! Mentre Arafat è «imprigionato» a Ramallah, lo sceicco Yassin, il capo di Hamas, si sposta nella striscia di Gaza tenendo pubblici comizi nei quali promette a Israele rappresaglie impensabili, di una tale ampiezza da far tremare tutto lo Stato ebraico! È funzionale quindi addossare ad Arafat tutte le responsabilità, anche se da tempo la maggior parte degli osservatori dubita fortemente del reale potere d’intervento dell’anziano leader. E gli israeliani lo sanno molto bene. Alcune settimane fa lo stesso quotidiano Ha’aretz raccontava come Arafat non fosse stato in grado di trovare qualcuno disposto a eseguire un suo mandato d’arresto contro un capo dei tanzim nel campo di Balata, vicino a Nablus. E sempre alcune settimane fa, lo stesso leader dei tanzim, Marwan Barghuti aveva apertamente dichiarato che certi ordini di Arafat non potevano essere eseguiti. Se oggi Arafat è tornato a essere, più ancora di prima, il punto di riferimento non solo di tutti palestinesi, ma addirittura dell’intera comunità musulmana, lo si deve proprio all’offensiva lanciata da Israele.È quanto Sharon aveva previsto e voleva. Più è forte il simbolo, più disastrosi sono gli effetti della sua caduta! Ma non è ancora detto che la strategia del premier israeliano risulti vincente: in passato non è mai accaduto. A questo punto, vista la determinazione israeliana, a tratti spalleggiata dagli Stati Uniti, di esautorare politicamente Arafat, la domanda è : senza il vecchio Abu Ammar, come affettuosamente lo chiamano i palestinesi, la pace sarebbe più vicina? Ebbene, nessuno, ma proprio nessuno, ci crede, nemmeno Sharon, il quale d’altronde respinge la pace concepita dopo gli accordi di Oslo, da lui definiti la peggior sventura per Israele. Sharon ha dichiarato più volte, senza possibilità di equivoci, d’essere contrario al ritiro dalla totalità dei territori occupati, allo smantellamento delle colonie, a una ripartizione, ancorché simbolica, di Gerusalemme e a qualsiasi intesa sul diritto al ritorno dei profughi. Per chi non vuole l’unica pace possibile, quella giusta, è preferibile doversi battere con quanti predicano la distruzione di Israele. Si tratta di una battaglia più facile a condursi, in quanto giustificata dal diritto all’esistenza. Non a caso, di questi giorni, il governo israeliano ribadisce quotidianamente di stare combattendo per la sua sopravvivenza e lo fa tenendo recluso l’interlocutore palestinese che ha dimostrato di essersi impegnato per una soluzione politica. Ma, una volta politicamente (se non fisicamente) abbattuto il simbolo della Patria palestinese, quale realtà ne scaturirebbe? Probabilmente quella di una terra divisa in fazioni, faide, sempre più radicali e sempre meno laiche, in lotta fra di loro, ma anche e principalmente in lotta contro Israele. La politica del «divide et impera» non sempre è pagante: due esempi recenti, Libano e Afghanistan, lo dimostrano sufficientemente. Ma poi questa scelta politica, se tale è, non è nemmeno condivisa dagli israeliani. La grande maggioranza del popolo d’Israele, anche se appoggia l’attuale politica di Sharon, sa altrettanto bene che l’unica soluzione va cercata nella creazione di uno Stato palestinese; che non ha alcun senso sacrificare il proprio futuro per difendere 200.000 coloni, che vivono su territori non propri, il più delle volte animati di un fanatismo pericoloso per lo stesso stato ebraico; che queste colonie non sono Israele, ma un’escrescenza pericolosa. Kamikaze: i vani avvertimenti dell’«intelligence» Il terribile attentato del 27 marzo a Tel Aviv è stato la molla che ha fatto scattare l’offensiva in corso. Un’esplosione devastante che ha causato decine di morti e oltre cento feriti. Un attacco suicida, di «sconvolgente brutalità», che però non è giunto inatteso. Sette giorni prima, il 20 marzo, il giornale Yediot Aharonot, conservatore, aveva pubblicato un rapporto dei servizi di Tsahal (l’esercito israeliano) che stigmatizzava le operazioni militari contro l’Autorità Nazionale Palestinese proprio dal profilo della sicurezza. In particolare vi si affermava che all’Autorità venivano preclusi i mezzi per adottare misure contro i terroristi, che il suo indebolimento era di grave pregiudizio per lo stesso Israele e che le operazioni militari favorivano il desiderio di vendetta. Nel rapporto veniva indicato un legame diretto fra gli attacchi israeliani e gli attentati suicidi. Non solo: gli esperti dell’«intelligence» militare avvertivano che porre le forze di sicurezza palestinesi nell’impossibilità di agire contro i movimenti terroristi, finiva per portare la guerra al terrorismo sullo stesso piano del collaborazionismo, tanto che alcuni ufficiali della polizia palestinese sono stati infine indotti a collaborare con i movimenti terroristici. Non è questo il primo rapporto dei servizi informativi israeliani di tale tenore. La stampa israeliana ne ha portati a conoscenza diversi altri ed è noto come ampie cerchie dello Shin Beit (i servizi interni) e del Mossad si siano apertamente schierate su posizioni critiche rispetto alle scelte di Sharon. Una catena infinita Il terrorismo palestinese, avverte sempre Yediot Aharonot, non è più quello degli anni Settanta o Ottanta. Allora era opera di veri e propri professionisti, che potevano venire cercati, individuati e ammazzati da altri professionisti, come effettivamente avvenne. Basti ricordare, per citare un solo caso, l’eliminazione a uno a uno, da parte degli agenti del Mossad, dei responsabili dell’attacco al villaggio olimpico israeliano di Monaco. (3) Oggi l’attentato suicida è l’obiettivo di centinaia, forse migliaia, di giovani contro i quali non è possibile condurre alcuna operazione militare. E più massiccia è la politica d’occupazione e di rappresaglia, più aumenta il numero dei candidati al suicidio. Porre fine a questa violenza, anche se non sarà facile farla cessare d’un solo colpo, è ancora possibile: con una scelta che non è più nemmeno coraggiosa, in quanto resta l’unica possibile: accettare il piano di pace saudita. Che significa restituire i territori occupati nel 1967, riconoscere Gerusalemme est quale capitale dello Stato palestinese, riconoscere il diritto al ritorno dei profughi. Il primo punto contempla lo smantellamento ( totale?) delle colonie, sugli altri due, aggiustamenti politici sono sempre possibili. In cambio Israele entrerebbe a pieno diritto nel Medio Oriente. Detto così, per inciso, siamo pur sempre nell’ambito delle richieste sancite nelle risoluzioni dell’Onu, che paiono valere per l’orbe terraqueo, tranne che per Israele. Nella proposta saudita, fatta propria dal mondo arabo, accettata dalla comunità internazionale, Usa compresi, ci sono le basi per una pace duratura. Ma Sharon ha già detto di respingerla. Quali allora le vie d’uscita? Forse qualche risposta sta venendo in questi giorni. Il rapido succedersi degli avvenimenti non permette un’analisi puntuale dell’attualità più stretta. Qui ci siamo limitati a cercare di capire e lo abbiamo fatto avanzando una serie di interrogativi, a cui abbiamo dato solo poche e certamente incomplete risposte. Ma è destino che l’attualità mediorientale finisca per essere materia dei testi di storia. La cronaca, quella, è assai spesso un esercizio di macabra contabilità. (1) Quando martedì, nell’invasione del campo profughi di Jenin, dove i morti palestinesi, combattenti e civili, già si contavano a centinaia, sono stati uccisi in battaglia tredici soldati israeliani, Sharon li ha definiti vittime del terrorismo! (2) Da consigliare è la lettura di due recenti volumi: «Le péché originel d’Israel» di Dominique Vidal, Les editions de l’Atelier; «Vittime», di Benny Morris, Rizzoli editore. (3) È narrata in modo avvincente, e documentato, in «Vendetta», di George Jonas, pubblicato da Rizzoli nel 1985.

Pubblicato il

12.04.2002 04:00
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