Alla fine, quel che doveva succedere parecchi mesi fa è successo: il governatore “a vita” della Banca d’Italia, Antonio Fazio, si è dimesso. Perché ciò avvenisse è stato necessario che una delle istituzioni più importanti del paese venisse trascinata nello scandalo delle scalate bancarie e lui stesso venisse iscritto nel registro degli indagati per insider trading, avendo “informato” sull’esito positivo dell’Opa all’Antonveneta il suo amico Fiorani, già inquilino delle patrie galere. Il gesto estremo di Fazio era ormai inevitabile, dato che il governatore era stato abbandonato da quasi tutti i suoi sostenitori (persino i leghisti, che hanno ricevuto un generoso sostegno dal sistema bancario quando esplose la banca del nord e furono ripulite le tasche di tanti celoduristi padani, si sono raffreddati) ed essendo che Fiorani si è messo a cantare come un usignolo davanti ai magistrati milanesi. Le sue colpe maggiori non sono tanto quelle imputategli dai vertici della Banca centrale europea: l’aver ricevuto e accettato preziosi regali da quelli che lui avrebbe dovuto controllare. Cattivo gusto, questione morale, cose importanti, certo; ma è più importante il mancato o fasullo controllo sulle operazioni bancarie, cioè una delle ultime funzioni rimaste a Bankitalia dopo la fine della lira e delle operazioni a essa connesse, dalla svalutazione agli interventi sui tassi e sul costo del danaro. Lo scandalo consegna nelle mani del governo il destino della Banca centrale, che dopo l’autorevolezza rischia di perdere anche la sua autonomia dal sistema politico e dunque la sua neutralità. Berlusconi e i suoi boys hanno varato una legge sul risparmio rinviata per anni per divisioni interne alla maggioranza e ora imposta a colpi di fiducia. All’interno della legge è prevista la revisione del meccanismo che regola la nomina e la revoca del governatore e la riconsegna nelle mani dell’esecutivo. La durata del mandato – come ovviamente tutte le parti richiedevano – è a termine e ha una durata di sei anni, rinnovabile una sola volta. La scelta del successore di Fazio, che probabilmente quando leggerete questo articolo sarà già avvenuta, dovrebbe essere condivisa dalla minoranza e, soprattutto e per fortuna, dovrà essere gradita al presidente della repubblica Carlo Azeglio Ciampi, uomo di Bankitalia ed ex governatore. Approfittando di un ambiguo clima bipartisan, Berlusconi è riuscito addirittura a inserire nel testo imposto anche una depenalizzazione del falso in bilancio. Un fatto che la dice lunga sul senso etico che contraddistingue la destra che governa il paese, speriamo ancora per pochi mesi, fino alle elezioni di primavera. Un fatto che la dice lunga anche sul rispetto di Berlusconi nei confronti del Quirinale, che ha sempre visto di malocchio le leggi ad personam del presidente del consiglio. In pole position per la carica meno onnipotente (per fortuna) e meno indipendente (ahinoi) di governatore, una rosa di quattro nomi: Draghi, Monti, Padoa Schioppa e Grilli. Ma rivendicare l’indipendenza della Banca centrale italiana, in un’Unione europea in cui l’unica cosa esistente è la Banca centrale europea, mentre la politica semplicemente non esiste, è poco più di una pia intenzione. Il commento: sesso e capitalismo, stesso fine Bertolt Brecht si chiedeva se fosse più ladro chi apre una banca o chi la svaligia. La risposta era scontata. Scendendo più terra terra, la comica italiana Luciana Littizzetto sostiene che parlare di finanza etica è come fare sesso con i vestiti addosso: ci si può anche provare, ma il risultato non sarà dei migliori. Fare queste riflessioni su un giornale svizzero è certamente irriverente, ma bisogna capire lo stato d’animo degli italiani, quelli che tempo addietro sostituirono la vecchia (e saggia, verrebbe da dire con il senno del poi) abitudine di nascondere i soldi sotto il materasso con la modernità, la banca, appunto. Ora scoprono che sono i cittadini a pagare le scalate agli istituti bancari e che per ogni scalata si rubano i soldi dei clienti vivi e persino di quelli morti, nel caso peraltro frequente in cui i parenti del deceduto non si facciano avanti in fretta per recuperare il gruzzolo del caro estinto. Ci risiamo, un’altra tangentopoli? Sì e no. Sì, per il coinvolgimento di svariati poteri: dalla finanza, ai garanti delle regole del risparmio, alla politica, all’informazione – non bisogna dimenticare che cinque mesi fa i “furbetti del quartierino” non scalavano soltanto le banche ma anche il Corriere della sera. Sì, per il protagonismo della magistratura, costretta a intervenire in presenza di reati e nell’assenza dell’azione politica e dell’autocontrollo del sistema. Ma tanta acqua è passata sotto i ponti dopo oltre un decennio dall’esplosione di tangentopoli. Allora il problema era il rapporto illecito e indecente tra affari e politica, una commistione letale che aprì la crisi irreversibile della cosiddetta Prima Repubblica. Oggi la politica sembra aver perso completamente autonomia e finalità e a comandare tutto è l’economia, meglio dire gli affari. È la lobby che ordina, e la lobby com’è nel suo dna agisce trasversalmente. Se fino a ieri il problema centrale era garantire l’autonomia della Banca centrale italiana dalla politica, oggi invece al centro c’è l’autonomia del sistema dei partiti dalla finanza. Se nell’elenco degli inquisiti e degli incriminati, accanto ai banchieri e ai loro portaborse, compaiono peones e sottosegretari della destra – dall’Udc ai postfascisti di Alleanza nazionale, ai forzitalioti – non è che la sinistra possa alzare la voce al grido “abbiamo le mani pulite”. Forse, probabilmente speriamo, la scalata dell’Unipol alla Banca nazionale del lavoro non è ricoperta di reati e furti ai vivi e ai morti. Resta il fatto che per renderla possibile i vertici dell’assicurazione “del movimento operaio e democratico” si sono associati con i peggiori banchieri e affaristi (i furbetti del quartierino) e hanno rastrellato i soldi necessari tra le cooperative “rosse”. Hanno cioè prosciugato un bene comune trascinando nello scandalo la parte migliore del paese, i soci delle Coop. Un fatto politicamente molto più grave del conto corrente intestato a Massimo D’Alema (fatti suoi) presso la Banca popolare italiana, quella del detenuto Fiorani e della scalata ad Antonveneta, attivato per pagare il leasing del suo yacht da 18 metri, Ikarus II. Ci sta più a cuore il futuro delle cooperative rosse – il primo embrione della sinistra italiana, nate un secolo fa dall’esperienza delle società di mutuo soccorso – che non le capacità velistiche del presidente dei Ds. Con la finanza e il capitalismo bisognerebbe muoversi con maggior accortezza e memoria storica. Se è vero almeno quel che denuncia la solita, irriverente Littizzetto che ha fatto ridere e piangere mezza Italia in uno show esilarante alla trasmissione “Il tempo che fa”, condotta da Fabio Fazio: sesso e capitalismo hanno lo stesso fine, buttarlo al culo a qualcuno.

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23.12.05

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