«Una strage legalizzata» è stato descritto di recente in Nicaragua lo scenario che si aprirebbe qualora il parlamento approvasse l’estensione della definizione dell’aborto terapeutico, ora consentito solo in caso di gravi rischi per la madre o di malformazione del feto. Nel paese centroamericano l’aborto terapeutico è contemplato nel Codice penale ma è ancora considerato un tabù in ampi settori della società e dalle stesse istituzioni di uno Stato che la Costituzione definisce laico ma le cui azioni sposano spesso l’ideologia ultraconservatrice della gerarchia locale della Chiesa cattolica. La connivenza fra Stato e Chiesa in un paese profondamente religioso è stata un’altra volta rivelata negli ultimi mesi dall’acceso dibattito – non ancora spentosi – suscitato dal caso di Rosa, una bambina di 9 anni figlia di giovani braccianti agricoli emigrati in Costarica rimasta incinta dopo essere stata violentata da un ventenne che lavorava nella piantagione di caffè dove i suoi genitori si guadagnavano da vivere. Rosa (il nome è fittizio per preservare l’identità della bambina) e i suoi genitori Francisco e Maria tornarono in Nicaragua a metà febbraio. Nell’ospedale del Costa Rica dove venne ricoverata nessuno disse loro che la bambina era stata violentata, che era rimasta incinta e che aveva contratto due malattie veneree. Seguiti da un’équipe della Red de mujeres contra la violencia (Rete di donne contro la violenza, vedi articolo sotto) e informati della possibilità medica e legale di interrompere la gravidanza di 15 mesi della bambina, i genitori – giovani contadini analfabeti parte di quei 500mila nicaraguensi, soprattutto illegali, che lavorano nel vicino paese nelle piantagioni di banane e caffè, nell’edilizia e nel servizio domestico – optarono per la soluzione dell’aborto terapeutico. «Da quando ci siamo resi conto della cosa orribile che hanno fatto alla nostra unica figlia, la bambina non vuole continuare la gravidanza», scrissero Francisco e Maria al presidente Enrique Bolanos in una lettera firmata con le loro impronte digitali. La decisione dei genitori di Rosa scatenò la reazione del Ministero della famiglia che si oppose all’aborto reclamando a più riprese la tutela della bambina. Facendosi un baffo del Codice penale il Ministero della salute vietò alla famiglia l’accesso agli ospedali pubblici, mentre l’ultraconservatore Comitato nicaraguense per la difesa della vita lanciava infuocati proclami contro l’aborto. Dopo che una commissione medica ufficiale lasciò la scelta in mano ai genitori stabilendo che la bambina avrebbe corso alti rischi sia in caso di continuazione sia di interruzione della gravidanza, la notte del 20 febbraio Rosa abortì in un ospedale privato della capitale Managua. L’interruzione della gravidanza, però, non placò gli animi. Mentre il “caso” faceva il giro del mondo, il cardinale Miguel Obando y Bravo, arcivescovo di Managua, scomunicò Rosa, i genitori, chi li aveva sostenuti e chi aveva partecipato all’intervento chirurgico (l’anatema diede luogo in Spagna alla campagna “Anch’io voglio essere scomunicato o scomunicata” che in pochi giorni raccolse 26mila firme di solidarietà con la decisione di Rosa e dei suoi genitori). Aldilà della polemica attorno al tema dell’aborto, il dramma vissuto da Rosa, Francisco e Maria ha rivelato una tragica e sommersa realtà dei paesi centroamericani, e del Nicaragua in particolare: quella degli abusi sessuali su minorenni. Secondo l’Istituto di medicina legale di Managua, un quarto delle violenze sessuali registrate nel paese riguardano giovani al di sotto dei 15 anni. «Rosa è un emblema di questo paese, paese di violenze sessuali, la maggior parte delle quali avviene fra le quattro pareti di casa», si legge sul numero di marzo di envío, l’autorevole rivista dell’Università centroamericana. Vittima, ma riscattata a tempo dal pesante silenzio che copre la stragrande maggioranza degli abusi su bambine, bambini e adolescenti commessi in Nicaragua, Rosa ora sta cercando di lasciarsi alle spalle i traumi della violenza e dell’aborto. Di lei e di altri drammi anonimi abbiamo parlato con Violeta Delgado, coordinatrice della Red de mujeres contra la violencia. Violeta Delgado, a tre mesi dall’aborto come sta Rosa? Rosa sta bene. Ha cominciato a frequentare la scuola. È in seconda elementare e fa i compiti tutte le sere. Gioca molto nel cortile di casa. Le sequele dell’abuso sessuale, però, sono ancora percettibili. Rosa è una bambina assai inquieta e sta conoscendo uno sviluppo molto precoce. I genitori riescono a rifarsi una vita in Nicaragua dopo il rientro dal Costarica e l’esperienza dell’aborto? Francisco, il papà, ha trovato un lavoro come muratore qui a Managua. Maria, la mamma, per il momento si occupa delle faccende domestiche ma spera di trovare presto un lavoro come cuoca. La bambina e i suoi genitori sono sostenuti in modo regolare da un’organizzazione non governativa spagnola, Infancia sin fronteras. Anche voi della Red de mujeres contra la violencia continuate a seguirli? Sì. Dopo l’aborto la famiglia ha vissuto un paio di mesi cercando di reinserirsi: trovare un luogo dove vivere, un lavoro, una scuola per Rosa. Ora hanno raggiunto una certa stabilità che permette loro di cominciare un processo terapeutico incentrato sull’esperienza di abuso sessuale vissuto dalla bambina. Da un paio di settimane un’organizzazione della Red specializzata in prevenzione e trattamento di casi di violenza sessuale li sta accompagnando in questo processo. La famiglia è riuscita a difendersi dai mezzi di comunicazione preservando una certa privacy? Qui in Nicaragua c’è riuscita, anche se un canale privato legato alla Chiesa cattolica ha mostrato i loro volti durante i giorni “caldi” della seconda metà di febbraio. Fuori dal paese, invece, la cosa è più complicata. I canali televisivi del Costarica continuano a trasmettere delle immagini che mostrano i volti di Rosa e dei suoi genitori. E poi qualche settimana fa i genitori hanno concesso un’intervista a una televisione cilena. Anche in quel caso i loro volti, come pure quello di Rosa, sono stati mostrati. Cos’ha lasciato in Nicaragua il dibattito suscitato dall’aborto di Rosa? Una maggior coscienza sul tema o solo ulteriori rancori fra gli opposti schieramenti? Nelle ultime settimane è continuata l’offensiva ultraconservatrice scatenata con il rientro di Rosa a Managua. Sei organizzazioni fondamentaliste cristiane hanno pubblicato sul quotidiano La Prensa (il principale quotidiano del Nicaragua, ndr) una lettera inviata al presidente Enrique Bolanos nella quale sollecitano l’espulsione mia e di Ana Quiroz (responsabile dell’organizzazione non governativa Coordinadora civil para la reconstruccion y la emergencia, ndr) dal Consejo de planificacion economica y social (Consiglio di pianificazione economica e sociale, ndr), importante organo consultivo della presidenza in materia di politiche pubbliche. Il motivo? La nostra azione in difesa di Rosa e della sua famiglia. Di questa offensiva ultraconservatrice fa parte anche una campagna denigratoria e di disinformazione affinché il parlamento non approvi la Ley de igualdad de oportunidades (Legge sull’uguaglianza delle opportunità, ndr). E poi gli ultraconservatori sono già scesi in campo contro l’estensione della definizione di aborto terapeutico nell’ambito delle riforme al Codice penale che verranno discusse prossimamente in parlamento. Se non ci fosse stato l’aborto, probabilmente la violenza subita da Rosa sarebbe rimasta anonima come lo sono tanti altri casi di abuso sessuale in Nicaragua. Il dibattito pubblico sviluppatosi attorno al caso di Rosa potrebbe aiutare altre vittime della violenza sessuale a rompere il silenzio? Io credo che aver portato a conoscenza dell’opinione pubblica il dramma vissuto da Rosa potrà aiutare altre adolescenti e donne a denunciare gli abusi subiti. Dopo il “caso Rosa” la Red de mujeres ha ricevuto tre denunce di ragazzine violentate e messe incinte dal padre o dal nonno. Una di loro a 14 anni ha già dato alla luce il figlio suo e di suo papà. La bambina è nata praticamente senza occhi. La ragazza-madre è ricoverata con gravi problemi psichici e ha tentato a più riprese il suicidio. La sua famiglia l’ha rifiutata. Altre due ragazze, gemelle, sono state abusate dal padre, un pastore evangelico, a Leon. Una è rimasta incinta a 14 anni e partorirà in questi giorni. Un’altra ragazza, anch’essa di 14 anni, è rimasta incinta dopo una violenza subita dal nonno. La gravidanza si è risolta con un aborto spontaneo. Ma alla ragazza è toccato vivere una forte depressione – anche in questo caso con vari tentativi di suicidio – a causa della tensione presente nella comunità dove vive. I drammi di queste ragazze sono stati resi pubblici? No, nessuno. Come Red de mujeres siamo confrontati a un dilemma: vorremmo sporgere denuncia ma allo stesso tempo desideriamo proteggere le vittime di questi abusi, evitare cioè che altre ragazze vivano il dramma che ha vissuto Rosa. Al Ministero della famiglia interessa solo che il bébé nasca. Poi si disinteressano della giovane madre. La ragazza che ha dato alla luce una bébé con gli occhi non sviluppati ci è stata consegnata dal ministero affinché ci occupassimo di lei. Questa ragazza, che ora ha 15 anni, è in uno stato deplorevole: non vuole vedere nessuno e nel centro dove l’abbiamo internata si è dovuto togliere le lenzuola per evitare che si impiccasse. Si ha l’impressione che il dibattito pubblico sviluppatosi quando Rosa e i suoi genitori sono tornati in Nicaragua sia stato monopolizzato dal tema dell’aborto, mentre quello della violenza subita da una bambina di 9 anni sia passato in secondo piano. Cosa ne pensa? Io credo che il Nicaragua ha già avuto il suo “terremoto” in materia di abuso sessuale con il caso di Zoilamérica Narvaez (figliastra dell’ex presidente Daniel Ortega che nel 1998 e negli anni seguenti denunciò a più riprese il padre per abusi subiti da quando aveva 11 anni, ndr). Il caso – seguito dalla Red de mujeres – ha scioccato la società nicaraguense: l’elusione del dibattito sulla violenza contro minorenni è dovuta fra l’altro al fatto che per il paese è già stato durissimo in quel frangente aprire gli occhi da un giorno all’altro su questa realtà, una realtà che riguarda anche un personaggio della popolarità di Daniel Ortega. D’altro canto, l’aborto è ancora un tema tabù in Nicaragua, malgrado tutti sappiano per esempio che figlie e mogli di persone ricche che militano in gruppi religiosi ultraconservatori vanno nelle cliniche di Miami ad abortire. Torniamo a Rosa. Il Ministero della famiglia esercitò forti pressioni sui genitori affinché la bambina non abortisse e il Ministero della salute vietò alla famiglia l’accesso agli ospedali pubblici. Come giudica l’atteggiamento di questi organi dello Stato? Lo Stato ha assunto posizioni contraddittorie. I due ministeri erano stati contraddetti dal presidente Enrique Bolanos, il quale ha detto varie volte che erano i genitori a dover scegliere cos’era meglio per Rosita. Questo ha portato nelle scorse settimane alle dimissioni della ministra della salute. In generale, però, si può dire che le istituzioni dello Stato sono più preoccupate di non urtare la sensibilità della Chiesa cattolica che del benessere della popolazione, e delle donne in particolare. Nella “gestione” del caso di Rosa vi è stata una violazione flagrante del principio della laicità dello Stato sancito dalla Costituzione. Cosa pensa del comportamento della gerarchia della Chiesa cattolica durante e dopo l’aborto di Rosa? Tradizionalmente la gerarchia della Chiesa cattolica in Nicaragua è ultraconservatrice. Dopo l’aborto di Rosa ha continuato l’offensiva contro il diritto delle donne di prendere decisioni concernenti il proprio corpo. Gli atti liturgici della Semana Santa (la settimana di Pasqua, ndr), per esempio, sono stati celebrati all’insegna del motto “Per la pace e contro l’aborto”. Le pressioni sono state forti e continuano, ma l’influenza della Chiesa secondo me è scemata per il discredito che si è guadagnata continuando a sostenere – unica istituzione a farlo, salvo una parte del suo partito – Arnoldo Aleman (l’ex presidente da mesi agli arresti domiciliari per corruzione, ndr). Come pensa la Red de mujeres di capitalizzare l’esperienza acquisita accompagnando e difendendo Rosa e i suoi genitori? La priorità immediata sarà riformare il Codice penale in modo che l’aborto terapeutico sia permesso anche per le ragazze incinte al di sotto dei 14 anni. E approfondiremo anche il lavoro di documentazione delle denunce di abuso. Violenza nella rete La Red de mujeres contra la violencia (Rete di donne contro la violenza) che ha accompagnato e continua ad accompagnare Rosa e i suoi genitori è stata fondata nel gennaio 1992 allo scopo di sensibilizzare la popolazione di un paese impregnato di valori e pratiche maschilisti al tema della violenza sessuale e domestica contro le donne. Durante gli anni ’90 la Rete – che inizialmente raggruppava una ventina di organizzazioni; ora sono oltre 150 fra gruppi, associazioni, collettivi, centri di donne, chiese, sindacati, reti locali e donne a titolo individuale – ha promosso una serie di campagne informative per cercare di far breccia nel silenzio che copre una realtà assai diffusa in Nicaragua. Oltre alla sensibilizzazione della popolazione e alla promozione di ricerche scientifiche, la Rete ha giocato fra le altre cose un ruolo importante nell’elaborazione e adozione della Legge 230 approvata il 13 agosto 1996 dal parlamento. La legge riconosce la violenza domestica quale delitto di ordine pubblico, inserisce nel Codice penale il delitto di lesioni psicologiche legate al fenomeno, stabilisce le misure di protezione ed elimina il delitto di adulterio per il quale solo le donne potevano essere condannate. Attiva partecipante nella creazione e nel funzionamento in seno alla Polizia nazionale dei Commissariati della donna incaricati di ricevere e dar seguito alle denunce di violenza domestica, la Rete è impegnata anche nella difesa giuridica e nell'assistenza psicologica alle donne vittime di violenza sessuale. La Rete è chiamata ora ad affrontare una sfida: andare oltre la violenza domestica e sessuale. «Ciò significa – scrive la coordinatrice Violeta Delgado sull’ultimo numero della rivista envío – incidere sulla violenza che si esercita contro le donne per il fatto di essere donne, in ambito pubblico e privato, istituzionale, politico e sociale. Significa parlare della violenza sul posto di lavoro e delle proposte ideologiche che trasmette lo Stato, che sono delle aggressioni istituzionali».

Pubblicato il 

23.05.03

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