“Situazione finale auspicata: demolizioni effettuate”. Dalla nuova documentazione nell’ambito della seconda inchiesta sull’abbattimento dell’ex sede del Centro sociale autogestito il Molino a Lugano di quasi tre anni fa, emergono altri elementi che sconfesserebbero la tesi della decisione di demolire lo stabile presa in urgenza dalla polizia. La “demolizione” auspicata è scritta in un documento redatto da un ufficiale di polizia il 18 marzo 2021, ben tre mesi prima della demolizione del 29 maggio. Nello stesso documento, il termine demolizione compare altre due volte nell’elenco dei preparativi dell’operazione “Papi”, il titolo dato allo sgombero del centro sociale. Si segnalano le possibili difficoltà tecniche nei lavori edili per la “demolizione”, la necessità di contattare discretamente delle imprese edili private in grado di svolgere quel compito e, infine, nella seconda fase post sgombero, come “farle intervenire” sul posto perché svolgano il lavoro. In una successiva riunione operativa del Comando di Polizia, il 22 aprile, la disponibilità delle macchine da cantiere è assicurata. Vi è un altro indizio sulla pianificazione della demolizione presa con largo anticipo. Il 12 marzo, nella riunione operativa della polizia cantonale sui preparativi per eseguire l'ordine di sgombero intimato dall'esecutivo luganese due giorni prima, un ufficiale chiede «se dopo lo sgombero il Molino rimane così». «Non è ancora deciso!» è la risposta. «Si sta lavorando per una decisione». A quale decisione ci si riferisce e chi dovrà prenderla, resta ancora un mistero. Se non siamo alla demolizione finale della tesi del procuratore generale Andrea Pagani formulata nella prima indagine, poco ci manca. Al termine di quell’inchiesta, il Pg aveva scagionato dalle accuse il vicecomandante della Cantonale Lorenzo Hutter (a capo dell’operazione di polizia) e la municipale luganese Karin Valenzano per aver autorizzato a nome dell’autorità cittadina la demolizione parziale del centro sociale. A mente del Procuratore, la demolizione fu presa in uno stato di “necessità esimente”, decisa sul momento dalla polizia e autorizzata dall’esecutivo luganese “per salvaguardare le vite di manifestanti e poliziotti”. Accogliendo il ricorso del legale dell’associazione Alba, firmataria della convenzione col Comune per l’utilizzo del sedime, la Corte dei reclami penali aveva annullato i decreti d’abbandono del Pg, ordinando un supplemento d’inchiesta.
Dai nuovi documenti acquisiti, più che l’urgenza s’impone quindi la premeditazione della demolizione. A comprova, si ricorda la mail inviata l’11 marzo dallo Stato maggiore della Polizia cantonale: “Quello stabile è l’attuale dormitorio. Si può demolire e si potrebbe chiamare l’impresa per farlo subito appena effettuato l’intervento?” era stato chiesto ai vertici della Polcomunale, oltre tre mesi prima della demolizione. “Sì. Ci vorrebbe una licenza. Non penso che qualcuno sollevi la questione, comunque è bene informare chi di dovere” rispose il vicecomandante della Polcomunale. Già. Chi sarebbe stata la persona da informare? La pianificazione della demolizione sarebbe stata decisa dalla polizia in autonomia o avrebbe avuto il via libera delle autorità politiche? Stato di polizia o Stato di diritto? A tre anni dai fatti, la magistratura non lo ha ancora chiarito. E nessuno ha il coraggio di assumersi la paternità. Focalizzare l’inchiesta su chi abbia autorizzato di pianificare l’abbattimento con largo anticipo, potrebbe essere illuminante per la ricerca della verità. A loro difesa, i poliziotti hanno sempre sostenuto che la demolizione fosse solo un’ipotesi di lavoro. Un’ipotesi piuttosto corposa, a giudicare dai continui riferimenti nei preparativi fin dal primo giorno di attività dello Stato Maggiore. Nell’intervista correlata, Giorgio Giudici, per trent’anni sindaco di Lugano, esclude che l’autorità comunale o cantonale potesse non esserne informata. Difatti, il poliziotto indagato ha affermato di averlo detto ai due municipali luganesi almeno in un’occasione. Questi ultimi hanno negato di averlo mai saputo, men che meno in quella riunione. Un verbale della riunione confermerebbe la versione dei poliziotti, ma poiché non sarebbe stato condiviso coi politici, è stato giudicato irrilevante. (qui l'articolo) Un altro elemento centrale emerge dai nuovi atti. Il tetto dello stabile demolito non sarebbe stato traballante come sostenuto da autorità cittadine e polizia. Una tesi fatta sua dal Pg, imputando la demolizione a “una claudicante comunicazione di polizia” che avrebbe portato alla demolizione dell’intero stabile invece del solo tetto, la cui instabilità sarebbe stata pericolosa per manifestanti e poliziotti in caso di rioccupazione. Che quel tetto non fosse pericolante lo comproverebbero diverse testimonianze e documentazione raccolte col supplemento d’inchiesta. Ad essere pericolante era il tetto di un altro stabile, quello del corpo centrale, inizialmente contrassegnato dalla lettera “F” nella planimetria del comparto, tant’è che era già stato licenziato il messaggio per i lavori. La messa in sicurezza del tetto non fu mai avviata, poiché ai servizi comunali fu chiesto di allestire il progetto Matrix che prevedeva un utilizzo dell’area in cui l’autogestione sarebbe stata esclusa. Quel tetto poteva aspettare o, forse, crollare. Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova, disse la celebre scrittrice di gialli Agatha Christie.
Si vedrà a quali conclusioni arriverà questa volta il Pg, che sta procedendo ad altri interrogatori e acquisizioni di nuova documentazione. A proposito di quest’ultima, non è ancora chiaro il destino delle parti annerite dal Comando della Polizia Cantonale sulle quali dovrà esprimersi il giudice dei provvedimenti coercitivi Ares Bernasconi. Su auspicio del giudice, il comandante della Polizia cantonale Matteo Cocchi e il Pg Pagani si sono incontrati per trovare una soluzione condivisa. Un incontro risoltosi in un nulla di fatto, o quasi. Sulle parti annerite, Cocchi ha concesso lo sbiancamento parziale di sole due parti. Da queste si conferma la presenza dei poliziotti ginevrini, già documentata dai media, ma di cui s’ignora il numero e il motivo per cui sarebbero stati chiamati. Quel giorno era prevista una manifestazione con poche centinaia di persone. “L’occupazione temporanea dello stabile abbandonato ex Vanoni e lo sgombero (con demolizione) dell’ex Macello, erano fatti imprevisti a cui si è risposto in urgenza” era la tesi della precedente inchiesta. Perché allora chiedere i rinforzi di decine di poliziotti ginevrini per un semplice corteo? Tante domande a cui si spera che questa volta la Magistratura riesca a dare delle risposte convincenti.
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