Un presidente, due Americhe

Come sempre, i risultati delle elezioni Usa che non siano le presidenziali vanno letti in molti modi: bisogna guardare alla mappa e ai voti assoluti, a chi ha votato (neri, bianchi, giovani, vecchi) e ai voti percentuali. Questo ultimo numero è impressionante: i democratici hanno ottenuto il 7% in più dei repubblicani. Ma in un sistema maggioritario questo non si traduce in seggi vinti e posti da governatore. Non al Senato, almeno.

 

Per i democratici i risultati pessimi sono di due tipi: alcune facce nuove che potevano far cambiare la mappa elettorale (in Florida, Arizona o Georgia) hanno perso. Certo, prendendo molti più voti di quanto non succeda al loro partito normalmente, ma hanno comunque perso. Il secondo aspetto è la sconfitta di volti noti, moderati, in Stati moderati. Per il partito di Obama, insomma, non ha pagato né l’essere giovane e radicale, né l’essere rassicurante. Esempio perfetto la Florida, dove hanno perso il vecchio senatore bianco Nelson e il giovane candidato governatore nero e radicale Gillum. Resta l’entusiasmo generato da alcune figure, il voto dei giovani e quel vantaggio di milioni di voti assoluti.


I repubblicani hanno vinto dove dovevano vincere, perso diversi governatorati e molti seggi alla Camera. Ma hanno tenuto il Senato, dove per via della turnazione dei seggi che vanno al voto (un terzo ogni due anni) erano avvantaggiati – difendevano meno seggi dei democratici. E nonostante gli sforzi enormi in termini di campagna elettorale, organizzazione, risorse finanziarie messi in campo dai democratici, non sono stati sepolti da un’onda blu. Trump potrà vendere questa come una vittoria.


Cosa ci lasciano queste elezioni? Due partiti e una democrazia piena di dilemmi. Se il peggio sembra essere passato grazie al freno che i democratici potranno mettere a Trump in Congresso, la battaglia per l’anima repubblicana e per quella democratica è appena cominciata.
L’altra cosa che ci lascia questo voto è un Paese più diviso di ieri. America rurale contro città, quartieri diversi contro piccole località omogenee. Se guardiamo la mappa di qualsiasi elezione americana degli ultimi 20 anni le divisioni sono queste: il rosso repubblicano è lontano dalle coste e lontano dai centri urbani, il blu democratico è a Ovest e a Est e, anche negli Stati a predominanza repubblicana, nelle città. Ci risiamo. Anzi, ci siamo sempre di più.


L’elettorato di Trump è andato in massa ai seggi tanto quanto quello democratico, e ha fatto in modo di resistere. I moderati repubblicani sono stati spazzati via, tutti tranne pochi. E visto che la sconfitta elettorale c’è stata ma non è stata cocente, nessuno al momento sembra in grado di sfidare il presidente e proporre un’idea diversa di partito di destra. Immigrazione, conflitti con la Cina e l’Europa, media bugiardi e corrotti rimarranno i talking points della destra Usa. E questo è un male. Non solo per gli Stati Uniti e la società americana.


I democratici hanno un altro problema, sempre lo stesso: l’uomo bianco. Se nemmeno questa volta sono riusciti a sfondare in certi territori, se la coalizione di Trump perde ma non si sfalda, serve trovare qualcuno che parli e offra speranza agli operai della West Virginia, del Wisconsin, del Michigan e così via. Il recupero democratico in queste aree non è definitivo e, a prescindere dal consenso, servono soluzioni, idee. Promettere formazione e toppe non funziona se l’avversario promette di tornare all’età d’oro dell’acciaio e del carbone.


La forza potenziale del partito di Warren, Sanders, Biden e Harris è data dalla condizione della società americana. La crisi ha generato e alimentato le diseguaglianze, costretto alcuni a lavorare più anni per avere una pensione dignitosa, la discussione pubblica sulla sanità è molto avanzata rispetto a quando Hillary Clinton provò per la prima volta a far approvare una riforma negli anni 90. E poi c’è la spinta sindacale del mondo del lavoro nei servizi, le giovani generazioni che chiedono più controllo sulle armi. I sondaggi sulla Sanità dicono che la maggioranza degli americani è favorevole a una sanità per tutti. Si tratta di un’opinione che torna in altri sondaggi. C’è insomma un terreno di lavoro, ci sono proposte concrete e ambiziose da elaborare e offrire al pubblico, c’è una spinta generazionale (il divario tra gli elettori giovani e anziani è abissale e alle presidenziali i giovani votano di più che non alle elezioni di midterm).


L’idea insomma è che per i democratici ci sia uno spazio enorme per un discorso nuovo e diverso da quello degli anni 90, quando le certezze erano tante e assolute per la società Usa. Questa è invece una fase di inquietudini, nonostante l’economia vada bene. E occorre dare risposte chiare, come fa a modo suo e in maniera disonesta il presidente Trump. Da domani tra i democratici si aprirà uno scontro tra i Sandersiani, che diranno che la causa della mancata vittoria è la troppa moderazione, e i centristi, più legati ai poteri forti, che diranno che troppa diversità e la presenza di figure radicali come la socialista Alexandria Ocasio-Cortez hanno danneggiato il partito. Hanno torto entrambi e il caso della Florida lo dimostra in maniera plastica. L’errore peggiore che i democratici possono fare è dividersi in maniera ideologica. Ma certo, al partito a cui manca una leadership servono facce e idee nuove. Un discorso chiaro, facile e la capacità di contrastare Trump anche sul suo terreno. Contro una schiacciasassi servono lottatori. La lunga stagione delle primarie presidenziali è cominciata il 6 novembre.

Pubblicato il

08.11.2018 16:40
Martino Mazzonis