Il piano di Trump di “ripulire” la Striscia di Gaza e trasformarla nella “Riviera del Medio Oriente” viola il diritto internazionale e incoraggia il genocidio in corso. Non solo, sarà perseguibile come crimine di guerra perché implica la pulizia etnica e la deportazione permanente dei palestinesi in nome di affari miliardari per la ricostruzione.

 

“Demolition state”

Per i repubblicani Gaza, dopo 15 mesi di guerra, è soltanto un cumulo di macerie e un “luogo di demolizione” dove nessuno vorrebbe tornare a vivere. Invece, come mostrano le immagini degli ultimi giorni, i palestinesi hanno voluto fare rientro nelle loro case, seppur distrutte, nel Nord di Gaza non appena è stato possibile in base all’entrata in vigore della tregua. Una delle strategie di resilienza dei palestinesi, dopo essere stati cacciati dalla loro terra nel 1948 senza la possibilità di farvi ritorno, è proprio quella di non lasciare la Striscia, temendo di non poter più rientrarvi. Non solo, secondo il Consigliere per la Sicurezza nazionale Usa, Michael Waltz, ci vorranno tra i 10 e i 15 anni per rendere di nuovo “abitabile” la Striscia. Quindi per i repubblicani la soluzione per “risolvere” il conflitto sarebbe che gli Stati Uniti prendano il pieno controllo di Gaza e avviino la ricostruzione. Evidentemente questo approccio è anche in contrasto con gli stessi piani annunciati da Trump in campagna elettorale di voler disimpegnarsi dalle guerre in Medio Oriente.

 

Eppure il presidente USA non ha tardato a segnare il suo secondo mandato con una cesura rispetto al suo predecessore, Joe Biden. L’ex presidente, accusato dall’elettorato arabo americano di non aver asserito adeguatamente la necessità di fermare la guerra e il genocidio a Gaza, ha però cercato di mettere dei paletti alle politiche sioniste nella Striscia. Invece Trump è senza freni. Dopo l’insediamento alla Casa Bianca, lo scorso 20 gennaio, il leader repubblicano ha immediatamente disposto la deportazione dagli Stati Uniti degli studenti e degli attivisti che hanno manifestato, in questi mesi di proteste contro la guerra, idee a sostegno della causa palestinese.

 

Trump aveva già aggravato lo scontro tra israeliani e palestinesi, nel suo primo mandato, con lo spostamento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme, e riconoscendo le rivendicazioni territoriali di Tel Aviv sulle Alture del Golan, annesse unilaterlamente nel 1967. Nel suo secondo mandato, Trump potrebbe anche favorire l’espansione territoriale israeliana nelle colonie in Cisgiordania, ritenute illegali dalla comunità internazionale. Il leader repubblicano ha già cancellato le sanzioni contro i coloni israeliani, ripristinando le forniture di armi, congelate dall’ex presidente Joe Biden.

 

Le reazioni del mondo arabo

Nei giorni scorsi, Egitto, Giordania, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Autorità nazionale palestinese avevano inviato una lettera al Segretario di Stato Usa, Marco Rubio, in cui hanno rispedito al mittente le proposte di Trump. Mentre Hamas ha definito il piano come “razzista” e foriero di diffondere il “caos” nella regione.

Sul piano dei colloqui di pace, con l’incontro fra Trump e Netanyahu, è tornato nel vivo il progetto di normalizzazione dei rapporti tra Israele, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, avviato con gli Accordi di Abramo (2020). Questa volta però le autorità saudite hanno alzato l’asticella e richiesto che, per riaprire i colloqui, si avvii anche un confronto per realizzare un piano che includa la creazione di un futuro stato palestinese, molto difficile da concretizzarsi per la presenza dei coloni israeliani in Cisgiordania e l’assenza di continuità tra i territori occupati. Le autorità saudite, dopo gli annunci di Trump, hanno ribadito che qualsiasi negoziato con Israele deve partire proprio dalla necessità che nasca finalmente uno stato palestinese. Tuttavia, Trump si è rifiutato di impegnarsi su una roadmap che vada in questa direzione.

 

Sebbene gli interessi di Trump e di Netanyahu siano sovrapponibili nel conflitto a Gaza, il presidente USA, insieme al suo inviato per il Medio Oriente, Steve Witkoff, vogliono a tutti i costi accreditarsi come coloro che hanno saputo trovare una soluzione al conflitto israelo-palestinese mentre per Benjamin Netanyahu la fine delle ostilità non è una priorità, considerando la dura opposizione, interna alla sua stessa coalizione di governo, con gli esponenti dell’estrema destra che ritengono un errore fermare la guerra.

 

Un deterrente per Hamas

La visita di Netanyahu negli Stati Uniti è arrivata in una fase molto delicata per il difficile cessate il fuoco, raggiunto tra Israele e Hamas a Gaza lo scorso 19 gennaio. Mentre sono ripresi i colloqui in Qatar, come previsto dall’accordo dopo i primi 16 giorni di tregua, per l’avvio della seconda fase della sospensione delle ostilità che include la fine permanente della guerra.

Nelle prime sei settimane di tregua, in scadenza il primo marzo, dovrebbero essere rilasciati 33 ostaggi israeliani (18 sono tornati a casa) dei circa 90 nelle mani di Hamas dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023. 580 sono i prigionieri politici palestinesi fino a questo momento liberati dalle carceri israeliane, alcuni condannati a pene gravi e spediti nei paesi vicini, tra cui Egitto e Turchia, su un totale di circa 2mila detenuti palestinesi che dovrebbero essere liberati, secondo gli accordi.

 

Le autorità israeliane vorrebbero sradicare la presenza di Hamas a Gaza. Il gruppo si è mostrato ancora capace di avere un controllo capillare sul territorio e ha saputo sfruttare le prime fasi di rilascio degli ostaggi per mostrare al mondo di essere politicamente vivo e vegeto, nonostante uno degli obiettivi di Netanyahu fosse la completa distruzione del gruppo dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023.

In questo senso, le parole di Trump potrebbero essere interpretate come un deterrente per spingere Hamas a rispettare gli accordi, a rilasciare tutti gli ostaggi e per far sì che si avvii senza intoppi la seconda fase della tregua a Gaza.

Dal canto suo, l’esercito israeliano (IDF) ha inaugurato in Cisgiordania l’Operazione “Muro di ferro” che ha già provocato 15mila sfollati e la distruzione di 120 edifici. E così, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA), le cui attività sono state vietate in Israele con accuse dirette ad alcuni suoi dipendenti di aver preso parte agli attacchi del 7 ottobre 2023, ha paragonato il campo di Jenin, attaccato da IDF, a “una città fantasma”.

 

Sul capo di Netanyahu pende un mandato di arresto della Corte penale internazionale (CPI) per crimini contro l’umanità. Eppure è stato accolto alla Casa Bianca da Trump come un leader centrale per gli interessi geopolitici statunitensi legittimando così il genocidio del popolo palestinese a Gaza e promuovendo lo stato di apartheid e di pulizia etnica in cui vivono i palestinesi nei territori occupati. Non solo, il presidente Usa è tornato al muro contro muro con l’Iran imponendo sanzioni draconiane che renderanno la vita impossibile agli iraniani più che colpire l’élite politica del regime degli ayatollah. Eppure se i piani di Trump dovessero realizzarsi, i regimi al potere nei paesi arabi, che devono fare i conti con opinioni pubbliche contrarie alla guerra a Gaza, potrebbero subire una destabilizzazione senza precedenti che avrebbe effetti significativi in tutto il Medio Oriente.  

Pubblicato il 

07.02.25
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