Oggi vorrei parlare del dialetto. Non che mi ritenga un poligrafo (dio me ne guardi) ma perché penso che i dialetti siano ancorati a territori, geografie, mestieri, riti, che oggi sono fortemente cambiati o non esistono più.
Faccio un esempio: dalle mie parti si parlava un tempo un dialetto quasi identico a quello della Valle d’Intelvi, del basso lago di Como, della Valle di Muggio. Non solo le parole erano molto simili ma anche i modi di dire, i proverbi, i paragoni. V’era cioè un dialetto che corrispondeva ad una precisa base geologica (quella del calcare selcioso del Generoso o di Moltrasio), all’analogia tipologica dei villaggi e delle coltivazioni, ai mestieri murari praticati quasi da tutti, ai riti, ai Sanrocchi, e alle Madonne venerate con declinazioni e calendari un po’ diversi in tutta la regione.
Lo stesso si potrebbe dire di altri dialetti e di altre microregioni: ... la Capriasca, il Malcantone, i territori della scrittrice Laura Pariani, cioè le brughiere del Varesotto e del Bustese, e così via. Questi linguaggi non erano linguaggi scritti, così come non erano disegnate quasi tutte le costruzioni, salvo le chiese.
Si ripetevano tipi e modi di fare per tradizione (trasmissione di conoscenze) e per imitazione; qualche volta con ibridazioni derivanti dal contatto con altri mondi (l’emigrazione), dall’arrivo di nuovi prodotti (... i pomm da tèra divenute poi da noi i pundatèra) o di nuove persone.
E si ripetevano in eterno le stesse storie lepidi o scurrili, che facevano sempre ridere: ... «un pet al fà rid e ‘na loffa la fà tacà lit». Il tutto in uno stato di grande stabilità.
Oggi invece c’è la cosiddetta città diffusa, dilagante su tutti i territori possibili, senza limiti riconoscibili e in continua mutazione.
Strade, edifici, impianti, merci, lavori cambiano di continuo e con loro cambiano i nomi dei luoghi e la denominazione delle cose. Sicché i dialetti sono privati della loro base materiale e culturale. Crolla in certo qual senso la “diversità biologica” dei loro territori. Chi ormai può sapere, fuori dal mio vecchio ristrettissimo habitat, cos’è una canàvara od un girabechìn*?
Questi oggetti e le pratiche ormai defunte che li accompagnavano, sono divenuti materia prima di quell’impresa archivistica meritoria che è il Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana.
Secondo me sarebbe meglio che nella città diffusa si parlasse una buona lingua corrente, gradevole e corretta sul piano sintattico e lessicale. Una lingua che si potesse scrivere usualmente, com’è usuale l’uso dell’automobile, del cellulare, del computer, della televisione.
Certo che talune radici resistono qualche volta in modo molto tenace, magari anche soltanto sul piano della pronuncia. Come quel grosso e simpatico muratore che, quando gli spiegavo qualcosa sul cantiere mi rispondeva “Uchèi, uchèi”, che era il suo modo di dire, alla comasca, okay, okay, ho capito.
* collare per capre - piccola trivella, in ticinese moderno: blechedecher |