Il Venezuela la prossima Ucraina? Il Venezuela sulla strada delle "rivolte arabe" tipo Egitto e Tunisia, Libia e Siria? O piuttosto, vista la sua collocazione geografica e storica, il Venezuela verso il Cile di Salvador Allende (e la sua fine)? I paragoni si sprecano mentre in Venezuela non accenna a scemare lo scontro cruento avviato agli inizi di febbraio dall’opposizione di destra e contrastato nelle strade non solo dalla Guardia Nazionale ma anche dai “colectivos” della base chavista più militante. La lista dei morti continua a crescere. Più di 20, di entrambe le parti. I tentativi di trovare una soluzione negoziata e “pacifica” alla guerra civile di bassa intensità (per ora) fra quella che l’opposizione – sostenuta a spada tratta dai media anti-chavisti venezuelani e dagli Usa di Obama – chiama “rivolta democratica” e che il governo di Nicolas Maduro chiama “golpe strisciante”, sono finora falliti. La Mesa (tavola) de la Unidad Democratica, l’ombrello che raccoglie la trentina di partiti e gruppi anti-chavisti, ha detto no alla conferenza nazionale di pacificazione proposta dal presidente della repubblica alla fine di febbraio. Lo scenario venezuelano non è quello della rivolta per la democrazia. Nei 15 anni di chavismo è stato quello, perfino troppo plastico, di una guerra di classe e, adesso, dopo la morte di Chávez, quello di un “regime change”. Il 5 marzo 2013 saltarono molti tappi di champagne a Washington, Londra, Madrid, Francoforte, Bruxelles. Mentre nei miserabili ranchitos sui contrafforti andini di Caracas si piangeva la morte di Chávez, l’uomo che con tutto il suo deprecato “populismo” per la prima volta nella storia del “Venezuela saudita”, in cui l’80 per cento della popolazione era povero, gli aveva dato una dignità di cittadinanza e aveva alleviato le condizioni di vita più abiette, nei centri del potere globale (e della democrazia) si brindava nella convinzione che la sua uscita di scena avrebbe portato alla implosione del campo chavista. Ma Chávez, con i suoi limiti ed errori, aveva seminato non solo petrolio – il prezioso “escremento del diavolo” di cui il Venezuela possiede le riserve globali più ricche del pianeta – ma anche idee e obiettivi. Una visione: quella della “indipendenza” dell’America latina, dell’unità e dell’integrazione latino-americane, imperniate sull’asse della giustizia sociale, dell’anti-imperialismo e del multipolarismo. L’opposizione venezuelana, dopo i conati falliti del 2002, è andata vicino all’obiettivo nelle elezioni presidenziali dell’aprile 2013 quando il suo candidato Henrique Capriles perse di un soffio e cercò di delegittimare la striminzita vittoria di un Maduro privo del carisma di Chavez. L’altro test furono le elezioni municipali del dicembre 2013, dopo un anno terribile: morte di Chávez, inflazione sopra il 50%, 20 mila morti di morte violenta, criminalità rampante, crescita economica bloccata e dipendente come e più di sempre dal petrolio, deficit fiscale al 9% del Pil, bolivar in caduta libera (6,30 al cambio ufficiale, 10 volte tanto al mercato nero), scarsità dei generi di prima necessità (pollo, latte, perfino carta igienica), code e black- out, corruzione a tutti i livelli, aumenti del salario minimo non sufficienti a coprire l’inflazione, voci di una nuova svalutazione del bolivar per contrastare il mercato nero (ma deleteria per i ceti più poveri e chavisti), interventi sempre più frequenti del governo nel sistema produttivo e distributivo per contrastare quello che Maduro chiama “il sabotaggio economico” e l’opposizione il naturale risultato di un socialismo inefficiente e corrotto. Le elezioni locali del dicembre 2013 divennero così un plebiscito nazionale. Che Maduro e il chavismo stravinsero: il 75% delle municipalità (240 su 337, anche se le principali città andarono all’oppo- sizione: Caracas, Maracaibo, Mérida, Valencia, Barquisimeto) e il 54% del voto popolare (contro il 44% dell’opposizione). I due Venezuela ancora una volta uno contro l’altro. Fu dopo quello smacco che l’opposizione decise di cambiare strada, scegliendo quella della destabilizzazione violenta. I settori più estremisti hanno allora preso il sopravvento, Capriles messo da parte, emersa la leadership di personaggi inquietanti, come la pasionaria di destra Maria Corina Machado e soprattutto Leopoldo Lopez, un quarantenne rampante, rampollo di una famiglia ricca, laureato negli Usa, attivo nel golpe del 2002, perseguito dalla giustizia per reati vari e attualmente in carcere per incitamento alla violenza (una mossa probabilmente sbagliata del governo). La sua hashtag si chiama #lasalida che in spagnolo significa sia “l’uscita” sia “la soluzione”. Lopez è l’esponente tipico di quella classe media che, incapace di trovare strategie e leader credibili nei 15 anni di Chávez e nel terribile primo anno di Maduro, alimenta la rivolta cruenta, cavalcando un movimento studentesco che, al contrario della gran parte dei paesi dell’America latina, si colloca a destra anziché a sinistra. Una strada non solo pericolosa ma anche impervia finché, ammette lo stesso Capriles, «la protesta non vada oltre la classe media». Ucraina, Libia e Siria, addirittura il Cile di Allende? Ma la situazione da allora è molto cambiata. In Venezuela l’alleanza fra “il popolo” e le forze armate “bolivariane” (sempre curate con immensa attenzione dall’ex-colonnello Hugo Chávez), ha retto. L’America latina non è ancora pienamente “indipendente” ma ormai decide da sola. Gli Stati Uniti hanno dovuto rinunciare a considerarla “il cortile di casa”. Nemmeno più l’Osa, l’Organizzazione degli Stati Americani, il ministero delle colonie, è più quella di una volta. Mercoledì scorso a Santiago del Cile, dove il giorno prima si è insediata la presidenta socialista Michelle Bachelet, si è tenuto un summit sulla crisi venezuelana dell’Unasud, l’Unione della Nazioni Sudamericane, sorta nel 2008 sulla spinta visionaria di Hugo Chávez. È di questa “interferenza solidaria” e di una rispettosa mediazione dell’America latina che ha bisogno il Venezuela in una fase critica della sua storia. Non della ridicola “offerta di mediazione” lanciata il 28 febbraio dal segretario di stato Usa John Kerry al tempo stesso in cui annunciava anche possibili sanzioni contro il governo di Caracas. In fin dei conti si tratta dello stesso governo che, con l’antipatico Bush o il simpatico Obama alla Casa Bianca, ha stanziato milioni di dollari per l’opposizione antichavista (5 milioni nel budget federale di quest’anno, e 90 milioni dal 2000). In Venezuela il primo anno del dopo-Chávez ha mostrato che c’è un chavismo anche senza Chávez. E anche se il Venezuela del dopo-Chávez non va affatto bene, il Venezuela dei Lopez e dei Capriles sarebbe peggio. Molto peggio.
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