TORINO Stephan Schmidheiny imbocchi la via della giustizia riparativa. È l’appello lanciato durante la prima udienza del processo Eternit bis per 392 morti d’amianto causati dalla fabbrica di Casale Monferrato (Alessandria) in corso davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Torino, dalla sostituta Procuratore generale Sara Panelli, che ha parlato di «opportunità straordinaria» per l’imputato. «Non come imprenditore, ma come uomo e come filantropo, quale lui si definisce», ha affermato la magistrata che segue questa vicenda giudiziaria sin dalle indagini all’origine del primo storico maxiprocesso Eternit per disastro ambientale, portando il concetto per la prima volta nella storia di questo processo, dentro un’aula giudiziaria. Si tratta di un approccio che mette al centro le persone che nel processo erano parti, i loro bisogni e con cui si cerca una risposta risolutiva delle questioni derivanti dal reato, una «strada complementare» al processo penale che «consentirebbe sia a Schmidheiny sia alla comunità ferita di Casale di evolvere, di passare su un altro piano», ha spiegato in aula Sara Panelli, che in questa intervista ci aiuta a capire il funzionamento, le potenzialità e il valore della giustizia riparativa, concetto entrato nell’ordinamento italiano nel 2022. Dottoressa Panelli, quali sono i ragionamenti alla base del suo suggerimento a Stephan Schmidheiny? Sono tanti anni che seguiamo questo processo per i morti di mesotelioma a Casale Monferrato. Processo da cui, oltre al reato, che è fatto da un elemento oggettivo (quindi le morti) e da un elemento soggettivo (dolo o colpa, si vedrà), emerge anche una grande sofferenza. Proprio per questo in aula abbiamo voluto proiettare una breve dichiarazione della storica presidentessa dell’AFEVA Romana Blasotti Pavesi (che a causa dell’amianto ha perso cinque familiari) da cui traspare un carico emotivo notevolissimo per la morte di queste cinque persone, il fardello di dolore che molti dei testimoni del processo si portano e hanno portato in aula. Ma immaginiamo che, essendo Schmidheiny un essere umano, altrettanto dolore ci possa essere in lui. Almeno così sembra leggendo alcune sue interviste. E anche la sua assenza può essere letta come indice di un peso interiore che si porta. Insieme ai colleghi si è dunque deciso di farci informatori di un’opportunità nuova, di una via parallela alla giustizia ordinaria (basata su un meccanismo che presuppone la presenza di un reato, l’accertamento delle responsabilità e la sanzione e che ha un suo percorso): quella della giustizia riparativa, che non si occupa delle parti del processo ma delle persone. Un ambito in cui quello che succede è rimesso a chi vi partecipa e ha dunque delle caratteristiche completamente diverse da quelle del processo penale. Cosa è e quale è lo scopo della giustizia riparativa? La giustizia riparativa, recita la legge italiana, “è il programma che consente alla vittima del reato, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario alle risoluzioni delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale adeguatamente formato denominato il mediatore”. Per queste sue caratteristiche la giustizia riparativa è dunque un ambito parallelo al procedimento penale. Essa si occupa della risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con cui possiamo intendere tutto quel peso che si intuisce nelle udienze del processo, che però non è la sede deputata a risolvere sofferenze. Lei ha sottolineato che non è necessaria nessuna ammissione di colpa. Cosa ci vorrebbe da parte di Schmidheiny e delle vittime per avviare un percorso di questo tipo? Mentre in altre legislazioni europee si è previsto in qualche caso che ci debba essere quantomeno un riconoscimento di un fatto essenziale o principale, la normativa italiana è silente sul tema della responsabilità. Da noi l’ammissione di responsabilità è fuori dalla giustizia riparativa, che non la presuppone. Il giudice che invia alla giustizia riparativa deve verificare la sussistenza di tre condizioni: l’assenza di pericolo concreto per gli interessati (per esempio nei casi di reati particolarmente efferati non deve esserci il rischio di nuove violenze), l’assenza di pericolo concreto per l’accertamento dei fatti (per esempio nascondendo prove o esercitando delle intimidazioni sulla persona offesa e inducendola a non testimoniare) e l’utilità. Nel nostro caso è chiaro che i primi due requisiti sono dati ed è quindi sul terzo punto che i pubblici ministeri di questo processo hanno svolto una prima valutazione. Sulla vicenda dei morti di Casale si sono già celebrati diversi processi, altri magari ce ne saranno ancora. E per questo Eternit bis ragionevolmente ci sarà il grado della Cassazione, poi ancora la giustizia sovranazionale. Ci è dunque sembrato opportuno invitare a cercare una risoluzione alle questioni derivanti dal fatto. Una risoluzione non in termini di avere un riscontro (come in una dinamica processuale) di restituzione o di risarcimento. La risoluzione è ciò che le persone all’interno di questa giustizia riparativa ritengono risoluzione, che può essere completamente diversa da quello che ci aspettiamo noi. Anche perché tante volte non è solo il risarcimento o non è neppure il risarcimento. In fondo, quale risarcimento potrebbe veramente riparare la perdita di cinque familiari? Schmidheiny cosa dovrebbe fare per accedere alla giustizia riparativa? E dovrebbe partecipare in prima persona? L’invio alla giustizia riparativa da parte del giudice competente (in questo caso la Corte d’assise d’Appello di Torino) nasce di regola da un’istanza di parte, quindi ci vorrebbe sicuramente una richiesta da parte di Schmidheiny, o di un suo difensore, o di un suo delegato, o di un suo procuratore speciale. Per il resto, come e cosa avviene all’interno di questo spazio, è rimesso alle parti, anzi alle persone: che cosa vogliono, quanto vogliono, cosa si può fare, è scelta loro. E Schmidheiny può decidere di farsi rappresentare o di partecipare in prima persona, fisicamente o virtualmente. Non deve avere nessuna paura. La richiesta andrebbe inoltrata prima della fine del processo? Può avvenire anche in una fase successiva, non ci sono limiti. La giustizia riparativa è esterna al processo penale e può addirittura iniziare prima che venga presentata una querela e per i reati perseguibili d’ufficio per tutto il tempo dell’esecuzione penale. Proprio perché il senso è di consentire che si trovi una soddisfazione sociale alla lacerazione che produce un reato. Diverse vittime negli ultimi anni hanno espresso il desiderio di incontrare Schmidheiny. Come lo interpreta? Questo desiderio di incontro, di un contatto è emerso nel processo, l’hanno portato i testimoni. Ed emerge anche dalle cronache che si leggono sui giornali locali, così come dagli studenti di Casale che ho avuto modo di incontrare. Si percepisce il desiderio di trovare una strada per capire, per vedere o semplicemente per stare in silenzio. Ci sono esperienze europee dove la giustizia riparativa ha esito con un semplice sguardo. Ma è qualcosa che noi non possiamo dire a priori, che devono veramente costruire le persone coinvolte una volta che ci sono: pensarla prima è difficile. Nel caso concreto della comunità di Casale quali soluzioni riparative si potrebbero immaginare? Ho letto su alcuni giornali casalesi che ci sono delle proposte di che cosa potrebbe avvenire o che cosa loro si aspettano. Certamente qualcosa che sta al di là del risarcimento alle singole famiglie, a chi ha perso i cari. Per esempio il finanziamento della ricerca di una cura per il mesotelioma, ma ciò potrà eventualmente essere discusso e realizzato solo all’interno di questo contenitore neutro, di cui tra l’altro non si saprà nulla se i partecipanti non vogliono. Nemmeno l’esito? L’esito si conoscerà se positivo o negativo nella misura in cui il mediatore comunicherà al giudice, ma se coloro che vi hanno partecipato non vogliono far sapere nulla, non uscirà niente. E magari loro hanno realizzato quello che volevano. Quindi è veramente uno spazio di costruzione dove le persone cercano la risoluzione di questioni derivanti dal fatto: tra le vittime ci sarà chi vuole un risarcimento, chi vuole vedere coinvolto Schmidheiny e chi vuole qualcos’altro. E avrà delle risoluzioni da ricercare anche Schmidheiny, che si dice innocente e ha dichiarato di avere del risentimento nei confronti addirittura degli italiani. Un atteggiamento che evidenzia assenza di benessere, di tranquillità, tipico di chi si sente aggredito, minacciato o addirittura perseguitato. La giustizia riparativa potrebbe dunque essere il luogo per provare a risolvere tutti i pesi che si avvertono nel processo: quelli delle persone offese come quelli di Schmidheiny. Secondo lei Schmidheiny ha appreso appieno la sofferenza dei cittadini di Casale? Questa è una domanda che andrebbe fatta a lui. Mi immagino però che come uomo, e a maggior ragione come filantropo quale si dichiara, la possa avvertire. Come lo avvertirebbe ciascuno di noi. La giustizia riparativa comporta anche una sorta di riconciliazione? Non è l’obiettivo. Quello che succede nello spazio neutro della giustizia riparativa è veramente nelle mani delle persone che vi accedono. Sono loro che, anche con un po’ di fantasia, devono cercare quale sia la risoluzione migliore. In questo caso abbiamo Schmidheiny da una parte e dall’altra un gruppo di vittime che conosciamo ma che in parte è ancora indefinito, visto che la lista dei morti continuerà ad allungarsi. In una situazione così, la soluzione che ci si può immaginare deve essere di portata globale e quindi soddisfare le aspettative di una comunità ampia, come potrebbero essere le vittime del mesotelioma in generale? Noi non pensiamo a delle soluzioni perché non è il compito della magistratura. La giustizia riparativa è come un binario che ci corre a fianco ma che non possiamo vedere. Quello che succede lì è veramente nella disponibilità delle persone coinvolte. In che misura, con quale ampiezza, a che livello la risoluzione si potrà trovare è rimesso totalmente ai partecipanti, anche perché quando si valica la porta della giustizia riparativa può bastare molto meno o forse ci vuole molto di più. Il gesto che fece il fratello di Stephan, Thomas Schmidheiny dopo essere stato scagionato dalla Procura di Torino, di donare 3 milioni di euro alla comunità di Casale Monferrato senza porre alcuna condizione sul loro utilizzo, è stato, nei contenuti, un atto di giustizia riparativa? Certo, anche se avvenne ben prima che questi concetti di giustizia riparativa entrassero a far parte del nostro ordinamento. In ogni caso ritengo che dovremmo evitare di cercare quello che potrebbe essere, perché solo le persone coinvolte potrebbero trovarlo. È una sfida culturale: si tratta di uscire dall’ambito “reato, sanzione e riparazione” e di entrare in uno spazio nuovo che è rimesso a chi ci vuole entrare e vuole cercare una risoluzione, qualunque questa sia. Un atto di giustizia riparativa avrebbe effetti sul processo penale? E darebbe un’immagine diversa dell’imputato? Il processo penale non si occupa dell’immagine, quindi non interessa. È però previsto che la giustizia riparativa abbia un effetto sul procedimento penale: il giudice, se si arriverà eventualmente a condanna, ne deve tenere conto nel valutare l’entità della pena. |