Un muro di ghiaccio e detriti alto 35 metri

Fu quello che, sgomento, vide davanti a sé l’operaio sondatore Gianni Da Deppo, di Belluno, la sera del 30 agosto 1965 quando, avvertito in paese poco prima di iniziare il turno serale, si precipitò con alcuni compagni di lavoro sul cantiere di Mattmark. Erano da poco passate le cinque e sui baraccamenti con gli alloggi era precipitato, dopo vari avvertimenti inascoltati, un pezzo del ghiacciaio dell’Allalin ed aveva sotterrato 88 lavoratori della diga. Durante l’inchiesta la tragedia fu imputata alla fatalità e all’imprevedibilità della natura. Nel processo celebrato sette anni dopo a Visp non vi fu nessuna condanna e ai familiari delle vittime (la parte soccombente) furono addirittura accollate metà delle spese processuali: 3 mila franchi per ogni operaio deceduto (cfr. area n. 31-34 del 26 agosto 2005). Quei fatti tremendi, avvenuti quarant’anni or sono, ci obbligano ad alcune riflessioni: In quegli anni era in corso in Svizzera un incredibile assalto al territorio. Le città crescevano a ritmi forsennati, le industrie prosperavano, la motorizzazione avanzava, i consumi fiorivano. Il paese aveva fame di energia, di strade, di luci, di televisione. E la fonte originaria di tutte queste cose erano in gran parte, come tuttora sono, la natura, il territorio, le acque, i ghiacciai. Politici di alta caratura sostennero in quegli anni sul piano ideologico, nel lancio dei grandi investimenti finanziari e nella costruzione dell’apparato dirigenziale, quello che veniva definito un dinamico momento di progresso della nazione. Sui cantieri, sospinte dalla povertà dei loro paesi, giungevano «tante mani forti e sapienti» (dalla poesia “Speranza” di Leonardo Zanier, nel volumetto “Non dimentichiamo Mattmark” pubblicato recentemente da Unia) senza le quali nessun progetto di trasformazione delle dure montagne svizzere sarebbe stato realizzabile. E adesso ? Ogni tanto scorrono acquacce nere nell’alveo altrimenti semi-asciutto dei fiumi (il Brenno, la Maggia, la Verzasca). C’è chi parla ancora di rialzare le dighe, con progetti, come si dice, di alto livello formale. C’è chi propone con grande successo di illuminare a giorno con colori ad hoc i superstiti monumenti delle nostre città. C’è chi progetta paradisi acquatici e balneari artificiali, nuovi impianti di risalita, grandi giocattoli divoratori di energia per una società di bambinoni adulti, cresciuti a suon di video-giochi e fuoristrada. Non è mia abitudine essere più pessimista del necessario. Ma se penso alle povere ottantotto vittime di Mattmark, ai diciassette rimasti soffocati un anno dopo in un cunicolo di Robiei (Val Maggia), al prezzo pagato e che tuttora paga il territorio naturale per la nostra fame d’energia ed altro, non mi sento sereno. A meno che ci caschi in testa, non per l’imprevedibilità della natura, ma per la nostra incoscienza, un altro gigantesco Mattmark. Sarebbe meglio pensarci prima, come suggeriva sul Corriere della Sera il 5 agosto Margherita Hack che alla domanda «Quanto vivrà ancora la nostra terra», rispondeva: «L’unica cosa certa è che la nostra terra finirà fra circa 5 miliardi di anni, inghiottita… dal sole… Ma molto prima di allora le condizioni sulla terra e quella degli esseri viventi potranno peggiorare drasticamente per colpa dell’uomo, almeno se non ci si deciderà ad affrontare seriamente il problema».

Pubblicato il

23.09.2005 13:30
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