Le Giornate cinematografiche di Soletta hanno dedicato quest’anno una delle loro retrospettive ai 40 anni dell’Associazione svizzera dei registi e degli sceneggiatori. La selezione è stata posta sotto il titolo «Il miracolo del cinema svizzero», e si è concentrata soprattutto sul periodo compreso fra il 1962 e i primissimi anni ‘80, quel periodo cioè in cui la nostra produzione esplose sia qualitativamente che quantitativamente, ottenendo l’attenzione dei media e del pubblico non solo svizzeri. Fra i titoli e gli autori della retrospettiva si sono ritrovati così praticamente tutti i più grossi nomi del nostro cinema sia del recente passato che contemporaneo, come Reni Mertens e Walter Marti, Yves Yersin, Fredi M. Murer, Markus Imhoof, Alexander J. Seiler, Rolf Lyssy, Alain Tanner, Richard Dindo, Claude Goretta, Jean-François Amiguet, Matthias von Gunten e così via. Ci si può chiedere come mai la Svizzera italiana non sia considerata partecipe del miracolo nazionale, neppure con autori e titoli che si sono portati a casa un Pardo dal Festival di Locarno. Ma soprattutto ci si deve interrogare sullo scopo di una simile, autocelebrativa retrospettiva: che senso ha ancora una volta tornare a venerare i soliti più o meno grandi maestri? Perché gli ambienti cinematografici svizzeri sono così attaccati al mito dei gloriosi anni ‘70 da non saper vedere altro, né prima né dopo? Perché ad esempio non andare finalmente a (ri)vedere criticamente quanto di valido (e ce n’è stato!) hanno lasciato i giovani autori svizzeri negli anni ‘90, per capire dove sta andando il nostro cinema? Forse perché la generazione che era giovane negli anni ‘70 è oggi al potere anche nel cinema e si dà i mezzi per consumarsi nelle sue nostalgie. Sta di fatto che sempre più si sente il peso di una «dittatura ideologica» sul cinema svizzero basato sulla mitizzazione del miracolo. Il fenomeno è molto più marcato nella Svizzera Romanda, dove, come osserva Vinzenz Hediger, assistente all’Università di Zurigo, «dei personaggi come Alain Tanner o Freddy Buache si sono imposti come dei padri, didattici, autoritari, incapaci di accettare le scelte delle generazioni successive. La loro eredità pesa sulla critica, sugli spettatori, sul pubblico. Tutto si misura al metro dei film del loro glorioso passato». Decisamente sarcastico è invece il giovane regista vallesano Denis Rabaglia: «Gli anni del terrorismo culturale orchestrato da alcuni «reazionari di sinistra» hanno finito per essere paganti, anche se più nella mentalità che al botteghino. Confrontando le scarse entrate che registrano nelle sale rispetto al fatto che ancora oggi Tanner e Goretta sono i registi più citati, penso proprio che è ora che si cominci a dedicare loro qualche strada».

Pubblicato il 

01.03.02

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