Le ultime statistiche ufficiali della disoccupazione, pubblicate all’inizio di ottobre, parlano di una crescita dei senza lavoro nel mese precedente di 1.091 unità rispetto ad agosto. Un aumento di lieve entità, che ha portato il totale dei disoccupati a 62.170. Il tasso per tutta la Svizzera sarebbe quindi rimasto invariato all’1,7 per cento. Ma per tener conto delle possibili conseguenze negative sull’economia degli attentati dell’11 settembre negli Stati Uniti, che secondo il capo della Divisione lavoro presso il Seco (Segretariato di stato all’economia), Jean-Luc Nordmann, rimangono un’incognita, bisognerà attendere la fine dell’anno. Il tasso medio di disoccupazione del 2001 dovrebbe però ottimisticamente stabilizzarsi intorno all’1,8 per cento, anche se in dicembre, per gli effetti stagionali, la disoccupazione potrebbe salire al 2,1 per cento. Secondo altre stime, se i dipendenti di Swissair in Svizzera (vedi pagina5, ndr) che resteranno senza lavoro saranno 5.000, la disoccupazione dovrebbe salire di 0,1 punti percentuali. L’euforia che non c’è più Queste tranquillizzanti prospettive sono ancora frutto dell’euforia che si era diffusa nei mesi precedenti, fino ad agosto, con quattro anni di congiuntura positiva alle spalle ed una previsione di crescita per l’anno prossimo ancora moderata ma non negativa. La crisi scoppiata in settembre ha rimesso in discussione questo quadro ottimista, e gli economisti parlano ormai di un rovescio congiunturale di cui è ancora difficile anticipare ampiezza, velocità e forme. Ma in realtà le premesse medesime sembrano sbagliate e le prospettive vanno decisamente corrette in modo più realistico. Gli ultimi quattro anni di crescita sono seguiti ad un periodo che, dal 1991 al 1996, aveva registrato una diminuzione o una quasi stagnazione del prodotto interno lordo (Pil), accompagnata dall’esplosione della disoccupazione che aveva fatto contare fino a 250 mila persone rimaste senza lavoro. Dal 1997 al 2000, invece, il Pil ha ripreso a crescere: il primo anno dell’1,7 per cento, l’anno seguente del 2,3, nel 1999 dell’1,5 e nel 2000 del 3 per cento. Parallelamente, il numero ufficiale dei disoccupati è sceso fino alle 60.166 unità registrate in agosto di quest’anno, e quello della popolazione attiva è salito dai 3.804.000 occupati del 1997 ai 3.940.000 del secondo trimestre del 2001. Questi dati nascondono però una realtà diversa, che testimonia la profonda trasformazione in atto del mercato del lavoro. I dati rivelatori sono quelli dell’inchiesta sulla popolazione attiva, condotta annualmente dall’Ufficio federale di statistica (Ufs). Questi dati, anche se provvisori, parlano per quest’anno di un numero ancora molto elevato di persone colpite dalla mancanza di lavoro, praticamente uguale a quello raggiunto negli anni 1996/1997. La differenza con i dati delle statistiche ufficiali della disoccupazione, che provengono dagli uffici regionali di collocamento, è dovuta alla diversità di criteri impiegati. Le persone e le statistiche Gli uffici di collocamento distinguono infatti tra persone in cerca di lavoro (iscritte ad un programma d’impiego temporaneo, o ad un programma di riconversione, o che si procurano un guadagno intermedio in attesa di un impiego definitivo) e disoccupati che percepiscono l’indennità giornaliera e sono registrati come tali. Solo questi ultimi risultano nella statistica ufficiale, strettamente legata all’applicazione dell’assicurazione contro la disoccupazione. Secondo l’inchiesta Ufs sulla popolazione attiva – condotta su un campione di 22.500 famiglie – sono invece disoccupati coloro che, durante la settimana di riferimento del sondaggio, non hanno esercitato alcuna attività remunerata, che hanno cercato un impiego nelle ultime quattro settimane, che hanno fatto sforzi specifici per trovare lavoro durante lo stesso periodo e che potrebbero cominciare a lavorare nel corso delle quattro settimane successive. Ora, è chiaro che le due statistiche misurano realtà in gran parte diverse. Certo, l’inchiesta dell’Ufs rileva una diminuzione dei senza lavoro (tutti, anche quelli fuori dalle statistiche della disoccupazione) del 30 per cento tra il 1996 e il 2001 (da 145 mila a 101 mila). Ma il numero delle persone sottoccupate (che cioè svolgono un’attività professionale per meno di 6 ore settimanali o che lavorano in un’impresa il cui volume di lavoro non raggiunge le 20 ore settimanali) è cresciuto del 18,5 per cento nello stesso periodo, passando da 281 mila a 333 mila. La stessa inchiesta valutava nel 1994 tra le 250 e le 300 mila unità le persone nella stessa condizione, a conferma del fatto che l’evoluzione ufficiale della disoccupazione non rispecchi affatto la realtà del lavoro precario. La conclusione è che ben 434 mila persone (101 mila + 330 mila), vale a dire il 10,7 per cento della popolazione attiva, sono attualmente senza lavoro o in condizione di sottoccupazione. Un esercito di senza lavoro Una percentuale praticamente identica (10,8) a quella del 1996. E mentre nelle statistiche della disoccupazione le donne senza lavoro sono il doppio degli uomini (3,5 contro 1,7 per cento), tra i sottoccupati le donne sono ben quattro volte più degli uomini: 14,2 contro 3,4 per cento. E se un uomo su venti è senza lavoro o sottoccupato (5,1 per cento), lo donne lo sono in misura di una su sei (17,7 per cento). Tutto questo dimostra una stabile fragilità del mercato del lavoro, dovuta alla crescente tendenza alla precarizzazione degli impieghi che si è affermata a partire dagli anni Novanta. Una conferma a questa tendenza viene dagli economisti più attenti. Per esempio, in un’intervista apparsa pochi mesi fa sul quotidiano «la Regione» il professor Bernd Ships, ordinario di economia nazionale al Politecnico federale di Zurigo e direttore del Centro di ricerche congiunturali dello stesso Politecnico, dichiarava: «La quota degli occupati a tempo parziale aumenterà. In particolare di lavoratori anziani, di cui in futuro il mercato avrà assolutamente bisogno (…) Inoltre, con una crescente offerta d’occupazione a tempo parziale sempre più donne qualificate possono venir integrate nel mondo del lavoro». La realtà smascherata Ancor più esplicito e incisivo l’economista Christian Marazzi, professore alla Supsi (Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana), che più recentemente dichiarava allo stesso giornale: «Oggi il problema non è la disoccupazione, ma la precarizzazione. Che si parli di un 4, di un 3 o di un 5 per cento di disoccupazione conta veramente poco rispetto al tasso di precarietà diffuso e trasversale nella società (…) La condizione di vita di molti svizzeri è nettamente peggiorata dal punto di vista occupazionale, reddituale e assicurativo». Anziani e donne sono dunque gli strumenti preferiti per ingannare le statistiche e diffondere la falsa illusione della (quasi) piena occupazione. Ma davanti alla nuova povertà di chi ha un lavoro minimo, insicuro e mal retribuito, non è possibile giocare a lungo a fare i maghi. Prima o poi la vera realtà sociale viene a galla.

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26.10.01

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