Un'integrazione a rimorchio

Il quadro presentato venerdì scorso alla giornata di studio su “L’integrazione degli stranieri in Ticino: problemi, risorse e soluzioni. Un primo bilancio dell’attuazione del programma federale 2000-2003” mostra che le attività d’integrazione promosse sul suolo elvetico sono sempre più numerose e meglio mirate. Tuttavia la situazione non è solo rosea, l’integrazione in Ticino è un affare lasciato in mano alla volontà e alla capacità finanziaria dei comuni e delle associazioni come Opera prima o l’Ente per la formazione, la riqualifica professionale e la ricerca (organizzatori della giornata). Ermete Gauro, delegato cantonale per l’integrazione degli stranieri, esprime la sua insoddisfazione per una realtà attualmente troppo “a macchie” con comuni che agiscono e altri che non si muovono: «il mio mandato è iniziato a febbraio 2002 con un 60 per cento che è diventato 100 per cento a partire da novembre. Un anno è troppo poco per poter fare una politica attiva d’integrazione in quanto cantone. Per il momento cerco di aggiornarmi sulle politiche di comuni attivi già da molto tempo e di fornire loro una piattaforma di coordinamento». A livello svizzero la popolazione straniera residente conta un milione e 500 mila persone, il 20 per cento della popolazione totale. In Ticino gli stranieri sono uno persona su quattro, dei quali la metà nel Sopraceneri, eppure: «purtroppo ho notato che le politiche di integrazione sul suolo ticinese – commenta Ermete Gauro – sono a due marce con un Sottoceneri molto più attivo, penso a comuni come Chiasso, Castel S. Pietro, Lugano e Paradiso, mentre nel Sopraceneri mi viene in mente solo Monte Carasso». Una situazione insoddisfacente sulla quale il Cantone forse dovrebbe muoversi in maniera più incisiva: «per il momento il Ticino ha deciso che devono essere i comuni i primi promotori dell’integrazione in quanto vicini alla realtà che si vuole modificare – risponde il delegato cantonale – del resto non vedo come da solo potrei fare qualcosa in più». Se da un lato è vero che i comuni sono i primi che hanno contatto con lo straniero, dall’altro è altrettanto importante sottolineare che le capacità finanziarie differiscono notevolmente fra i diversi comuni. Non solo, Ermete Gauro aggiunge che «sono diverse le volontà dei singoli comuni». Anche Cristof Meier, coordinatore del promovimento dell’integrazione della Commissione federale degli stranieri (Cfs) afferma che la situazione ticinese è anomala: «non siamo contenti del numero di richieste di credito per progetti d’integrazione che sono giunte finora dal Ticino. Abbiamo un credito annuale per queste attività fra i 10 e i 15 milioni di franchi. I progetti promossi in Ticino sono stati solo 13 nel 2003 con una media per finanziamento intorno ai 35 mila franchi. Crediamo che si potrebbe fare di più, aspettiamo le vostre proposte». Alla giornata di studio diverse persone hanno sottolineato il fatto che è come se esistesse una doppia anima delle volontà politiche, da un canto volte a promuovere una multiculturalità della società ma dall’altro timorose di perdere consensi elettorali e troppo spesso, con l’aiuto dei media, tentate di scaricare le malefatte sullo straniero. «Per la Cfs il problema non è se si vogliono più o meno stranieri – commenta Cristof Meier – per noi il milione e 500 mila sprovvisti di passaporto svizzero sono un dato di fatto e il nostro problema non è se ma come integrarli. La società è di fatto multiculturale, non ci si può limitare a riflettere sul fatto se la si vuole o meno, è come sfuggire la realtà». Diversi sono stati anche gli interventi dei “professionisti del settore” che hanno rivendicato un punto comune da cui partire, un luogo di incontro e di scambio reciproco di esperienze. Tutte necessità di cui il Cantone potrebbe farsi non solo coordinatore ma anche promotore: perché non anche attraverso un finanziamento diretto a quei comuni che ne avrebbero bisogno? Straniero, ma non solo Alla giornata di studio sull’integrazione degli stranieri non sono intervenuti solo gli “esperti in materia”. Era presente anche Paata Pataraia, georgiano di 32 anni munito del suo permesso N (richiedente l’asilo). Lui, la moglie Nina e i loro due bambini sono in Svizzera da 5 anni, in attesa di una decisione che verrà presa a Berna. Quattro di quel milione e 500 mila persone che dovrebbe trarre giovamento dalle politiche di integrazione. Signor Pataraia cosa è per lei l’integrazione? Penso a come ho vissuto io. Il primo muro me lo sono creato da solo, il richiedente l’asilo ha paura, è la prima cosa che ha. Avevo paura di camminare per le vie di una città che non conoscevo, paura di prendere il bus, di parlare con le persone. Un muro all’integrazione che mi sono costruito all’inizio per autodifesa. Ma quel muro non era solo mio, c’è anche un muro con cui non posso lottare e che si costruiscono gli altri. Mi rendo conto che solo la parola “asilo” è per alcuni già negativa, una maschera di male che fa paura. La prima volta che ho dovuto raccontare perché ero venuto in Svizzera sono svenuto dall’emozione. Che cosa si potrebbe fare per cambiare questa situazione? Di cosa avreste avuto bisogno in quei momenti? Avremmo avuto bisogno di qualcuno che poteva ascoltarci, di cui fidarci senza nessuna paura. Qualcuno che poteva passare oltre a quel muro che lo straniero appena arrivato ha dentro di se. Ecco, questo è il permesso N. È strano perché per noi è allo stesso momento una cosa di cui ci vergognamo ma di cui siamo anche fieri, vuole dire che abbiamo un motivo serio per essere qui. Guarda cosa c’è scritto dietro: “Questo documento non certifica l’identità della persona”. Come faccio a presentarmi a un posto di lavoro con questo? Sono cose che mi fanno male. Quando siamo arrivati qui abbiamo capito che prima di tutto dovevamo studiare l’italiano. Mi dispiace che non lo parlo ancora troppo bene. Vi sentite “integrati” dopo 5 anni che siete qui? Abbiamo avuto tempo per conoscere le differenze fra il nostro modo di vivere e quello in Ticino. All’inizio ci capitava spesso di tornare a casa e dire “guarda Nina qui fanno questa cosa così ed è meglio che da noi” oppure il contrario. Non mi sento ancora integrato, non ho un lavoro, non so se potrò restare qui o se domani, fra un mese o un anno mi diranno che devo andare via. Mi sento come una nave che non sa dove deve arrivare e se uno non sa dove andare non ci saranno neppure i venti a spingerlo. Con il permesso N posso sì lavorare ma solo a certe condizioni. Mi è spesso capitato che dopo aver avuto un colloquio di lavoro ed essermi quasi messo d’accordo al momento di presentare il permesso N il datore ha cambiato subito idea. Troppo complicato anche per chi vuole assumermi. Una volta che trovo qualcuno che vuole farmi lavorarare devo annunciarlo in Comune, riempire formulari da mandare a Bellinzona, poi vanno a Berna. Se si è fortunati la decisione arriva dopo un mese. E poi non posso fare tutti i tipi di lavoro, solo quelli che gli altri non vogliono. Ma va bene anche così, io sono venuto in Svizzera perché penso che sia uno dei paesi più democratici, un paese in cui posso andare a dormire tranquillo senza paura che qualcuno venga a fare male a me e alla mia famiglia. Cosa pensa di questi incontri in cui si cerca di definire una politica d’integrazione? Per me è stato bello perché ho trovato un ambiente aperto nei miei confronti, qualcuno che vuole sapere la mia storia e che vuole raccontarmi la sua. Non sono solo uno che chiede asilo politico. Credo che a questi incontri dovrebbero partecipare più stranieri, gli farebbe bene. Come vedete il vostro futuro? Quando siamo arrivati in Svizzera i nostri bambini erano piccoli. Sono cresciuti qui, la più piccola è all’ultimo anno dell’asilo e il più grande alle elementari. Se domani ci dicono che dobbiamo andare via vorrei che almeno loro potessero restare qui. Ormai la loro vita è qua. A volte mi chiedono come mai non possono vedere il nonno, mi dicono che i loro amici possono farlo. Io e Nina gli rispondiamo che non ci sono aerei che vanno fino in Georgia, ma sappiamo che dovremo parlare anche di altro quando cresceranno. Al futuro noi non riusciamo a pensare, ogni volta che ci facciamo dei programmi si scontrano con la realtà. Sul mio permesso N c’è scritto che non si è sicuri se sono io ono, questa è la mia realtà. Mi ricordo la prima volta che siamo entrati in Svizzera: dal bus abbiamo visto delle roulotte parcheggiate in un campo e io ho detto a Nina che forse avremmo dovuto vivere lì, mi vergognavo. Lei mi ha detto che non era un problema, che saremmo stati bene anche lì, l’importante era che fosse un posto sicuro. Nina è stata più forte di me, non è solo mia moglie ma è anche la mia migliore amica. ct

Pubblicato il

13.02.2004 02:00
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