Tutto cominciò il 30 ottobre 1996: quel giorno Erich Hauert assassinò la ventenne Pasquale Brumann nel bosco dello Zollikerberg, presso Zurigo. Hauert stava scontando una condanna per aver ucciso due donne. Quel giorno era in licenza, come già diverse volte in precedenza. Lo si lasciava uscire dal carcere benché la perizia psichiatrica avesse riscontrato disturbi psicopatici della struttura caratteriale che lo rendevano refrattario ad ogni terapia. Insomma, avrebbe sempre potuto uccidere, non c’era rimedio. Così, puntualmente, accadde. L’orrore e lo scandalo in Svizzera furono grandi. E si moltiplicarono quando, nel 1998, nel canton San Gallo, un uomo che aveva già commesso reati simili fu condannato a soli 18 anni di carcere per aver violentato e strangolato una tredicenne, che si salvò solo per aver finto di essere morta. Sull’onda emotiva di questa sentenza parenti e amici della giovane vittima lanciarono l’iniziativa popolare per l’internamento a vita dei criminali estremamente pericolosi e non curabili, sulla quale voteremo il prossimo 8 febbraio. Essa chiede che se la non curabilità e la estrema pericolosità di un criminale sessuomane o violento vengono accertate da due esperti, il giudice lo debba internare a vita. Liberazioni anticipate o libere uscite sarebbero escluse. Una nuova perizia sul criminale sarebbe possibile solo se nuove scoperte scientifiche dimostrassero che egli non è più pericoloso. Per quanto nobili siano gli intenti dei promotori e di coloro che oggi in buona fede ne raccomandano l’accettazione, si tratta di un’iniziativa sbagliata. Se è vero infatti che in passato c’è stata troppa leggerezza nel concedere permessi di libera uscita o scarcerazioni condizionali, è altrettanto vero che già oggi il codice penale prevede la condanna all’ergastolo, che sentenze di reclusione a vita vengono regolarmente pronunciate e che la revisione del codice penale, che entrerà in vigore nel 2005, migliorerà ulteriormente il sistema di espiazione della pena e di tutela della società per quel che concerne i criminali estremamente pericolosi. Ma la vera novità introdotta dall’iniziativa, del tutto inaccettabile in uno Stato di diritto, è l’esclusione per principio della possibilità di riesaminare la pena inflitta ad un internato a vita (tranne, e c’è da chiedersi il perché di questa eccezione, se vi sono nuove scoperte scientifiche). Questo meccanismo mette sotto tutela i giudici, obbligati ad eseguire quanto due esperti ordinano, ed eleva i periti psichiatrici a profeti, quando gli stessi psichiatri concordano sull’impossibilità di esprimere una previsione su un lasso di tempo di 20 o 30 anni. Proprio di questa impossibilità tiene conto il codice penale quando impone di riesaminare periodicamente, la prima volta dopo 15 anni, la situazione di chi sta scontando una condanna all’ergastolo. È quanto accaduto fra gli altri con il famigerato “sadico di Romont”: constatata l’assenza di miglioramenti e la sua persistente pericolosità, dopo 15 anni non è stato rilasciato e sta normalmente scontando la sua condanna al carcere perpetuo. Secondo l’iniziativa dunque, un condannato all’internamento a vita non avrebbe più alcun diritto alla speranza: segregato per sempre dalla società, come morto. L’impossibilità di un riesame della sentenza d’internamento rende questa iniziativa contraria alla Convenzione europea dei diritti umani e verrebbe probabilmente sanzionata come tale dalla Corte di Strasburgo. Perché l’esclusione certa e per sempre dalla società, qualunque cosa accada e a dispetto di un’evoluzione futura del condannato, per quanto imprevedibile, è un trattamento inumano e degradante, difficilmente preferibile alla pena di morte. Può piacere all’Udc, ma non a chi crede che la tutela della dignità umana anche del peggiore dei criminali sia comunque un progresso per la società.

Pubblicato il 

16.01.04

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