La testata e l’autore godono di ottima reputazione. L’articolo e le sue implicazioni, sono di grande interesse pubblico. Il 17 settembre il British Medical Journal ha pubblicato un’analisi di Peter Doshi sull’annosa questione dell’immunità al nuovo coronavirus. Doshi, fra le sue mille attività, ha speso mesi lavorando attorno all’ultima pandemia: la Suina che il virus H1N1 avrebbe dovuto provocare. L’immancabile modello matematico dell’Imperial College si era distinto per aver previsto solo nel Regno Unito 65mila morti – ne furono registrati 457. Oggi Doshi torna a scrivere di pandemie: mette in fila le prove che si stanno accumulando su quanto siamo a priori protetti dal Corona che tanto sta affliggendo le nostre vite. Non è questione da poco, perché significa chiedersi quanto il virus sia davvero nuovo e quanto lunga la strada al ritorno della normalità. Dal primo giorno, Sars-COV-2 è stato accomunato a Mers, Sars e ad altri Corona, responsabili dei raffreddori che condannano la bimba di casa al naso che cola. Dal principio dell’emergenza, molti hanno puntato il dito sulla possibilità – e la speranza – che una forma di “immunità incrociata” (cross immunity) potesse essere nelle carte grazie agli altri Corona. All’epoca, però, in mancanza di prove si trattò piuttosto di un riflesso di buon senso fra chi conosce la materia. Riflesso travolto dal panico collettivo, che non ha risparmiato giornalisti, né governi. Fatto sta che nel frattempo diversi studi scientifici puntano a cotanta potenziale buona notizia. Sembrerebbe, spiega Doshi, che una discreta parte della popolazione presenti una immunità a priori verso il nuovo Corona. Questo spiegherebbe l’enorme quota di asintomatici, ed aiuterebbe a comprendere come mai anche in regioni in cui cresce il numero di “test positivi”, i reparti Covid degli ospedali siano praticamente inutilizzati e il numero di “positivi” non trovi corrispondenza nel numero di morti. Ma se finora si rimuginava in base a meccanismi di plausibilità ed esperienze precedenti, gli studi di cui racconta Doshi indicano qualcosa in più. La questione verte attorno al ruolo degli anticorpi e delle “T cell”. Senza addentrarci in spiegazioni tecniche, c’è che da mesi guardiamo ai test sugli anticorpi per capire a che punto siamo della pandemia. Ma i conti non tornano: gli anticorpi sono bassi in paesi in cui l’incidenza è stata elevata, e sono assenti in pazienti che il Covid l’hanno avuto. Tutt’altra storia con le T cell, test non usati su larga scala perché complicati e costosi. Ça va sans dire: servono più studi, con più pazienti. Eppure, la storia che illustra Doshi rischia di far caracollare più di un governo: «La crescente mole di studi che documenta una pre-esistente risposta immunologica potrebbe costringerli a rivedere premesse fondamentali su come misurare il rischio per la popolazione e come monitorare l’amplitudine dell’epidemia». Per noi che ci facciamo (anche) gli affari nostri, la prospettiva significherebbe un calo sostanziale dell’ansia. Potremmo inoltre smettere di aspettare un vaccino come il Messia. Cotanto spostamento sarebbe magnifico, per tanti motivi. Non soltanto l’industria per decenni ha tentato invano di metterne a punto uno contro gli altri Corona, il che non depone a favore di uno sprint inedito e miracoloso. Pochi giorni fa uno dei concorrenti di punta, Oxford di AstraZeneca, ha dovuto interrompere gli studi per l’insorgere di effetti indesiderati in due volontari che partecipavano alla sperimentazione.
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