Un'educazione africana

Hugo Pratt ebbe a dirmi, un giorno, che il suo “Mal d’Africa” aveva radici profonde nel suo humus esistenziale e il tutto era riconducibile al suo lungo soggiorno in Abissinia, così com’era chiamata ai tempi l’Etiopia. Quello fu indubbiamente un periodo determinante nella formazione della sua personalità, sei anni (dall’età dai 10 ai 16) in cui imparò a crescere in fretta, aprendo la mente a nuove usanze e costumi, a mentalità diverse, a persone che sembravano uscite dalle pagine dei libri d’avventura, a luoghi esotici visti soltanto nei fumetti di Cino e Franco, i piccoli coloniali creati dall’americano Lyman Young. Era il 1937 quando il piccolo Hugo arrivò in Africa con i genitori, in un tempo in cui il consenso al fascismo aveva forse raggiunto il suo apice. «I primi anni li vissi quasi come un sogno», mi disse Pratt, «mio padre era camicia nera e aveva amicizie importanti con ufficiali inglesi e francesi, oltreché italiani e locali. Era bellissimo partecipare a certe feste. Io rimasi irretito e affascinato da tutte quelle uniformi multicolori, dalle mostrine, dai gradi ricamati in oro. In casa avevamo servitori indigeni, tra i quali ricordo ancora Brahane, un giovane etiope. Fu lui ad insegnarmi l’amarico e alcuni dialetti locali». Ma dal giugno 1940, con la guerra, le cose cambiarono e il piccolo Pratt, su pressioni del padre, si trovò inquadrato nella Polizia Coloniale che venne impiegata, verso la fine del conflitto, in azioni contro gli indipendentisti che culminarono con gli incendi dei villaggi sospettati di dare asilo agli sciftà, i temibili guerriglieri etiopi. Forse furono gli occhi atterriti dei bambini di quei villaggi, o gli sguardi spaventati delle donne, o forse ancora la rabbia e l’odio che lesse sui visi dei vecchi a fargli comprendere che le cose non stavano come gli erano state raccontate. Fu lì che prese coscienza come fossero falsi e mendaci gli assolutismi ideologici professati dal padre e come risultassero vuote e senza senso le retoriche della dittatura fascista e di tutte le dittature a venire con le quali fu confrontato in seguito. «È stata l’Africa a farmi toccare con mano che certe realtà possono essere assai diverse da ciò che si è creduto», mi disse ancora Pratt, ricordando come nel 1942 fosse ritornato in Italia su una di quelle famose “navi bianche”, così dette perché dipinte interamente di bianco con grandi croci rosse sulle fiancate, che riportarono in patria più di 30 mila civili in perigliosi viaggi. L’esperienza africana gli aprì la mente ed il cuore al rispetto del “diverso”, alla tolleranza, all’accettazione di modi di vita e di pensiero di altre etnie, portandolo nel contempo ad assimilare un anti-colonialismo convinto e il rifiuto di ogni ideologia totalizzante. A ben vedere, gli intendimenti di cui sopra, li possiamo ritrovare, sparsi qua e là in ogni sua opera, da Corto Maltese al Sgt. Kirk, da Ernie Pike a Wheeling. Ma il richiamo dell’Africa si avverte al meglio in quattro serie realizzate da Hugo Pratt in epoche diverse. La prima, Anna nella Jungla, è un’elegia al fantastico che si sviluppa all’eco di ricordi giovanili frammisti alle indelebili emozioni suscitate dalla lettura degli amati giornalini di Cino e Franco. La seconda, molto più matura, racchiude quattro avventure vissute da Corto Maltese nello Yemen, nella Somalia britannica, in Etiopia e, infine, in Tanganika (l’attuale Tanzania). Una serie che i critici, a posteriori, identificheranno come il ciclo de Le Etiopiche. Ma il suo grande capolavoro narrato a fumetti è indubbiamente la saga de Gli Scorpioni del Deserto, un’unità irregolare che agì nell’ambito delle forze alleate contrapposte alle truppe d’invasione fasciste in Etiopia. Il periodo preso in esame da Pratt riguarda i primi anni del conflitto (1940-1941) descritti in episodi che sanno scandagliare mirabilmente tutti i sentimenti dell’animo umano dei protagonisti in un geniale caleidoscopio che si riallaccia sovente a fatti storici e a personaggi veramente esistiti. Anche l’ultima serie, Cato Zulù, prende lo spunto da riferimenti storici ben precisi come la morte del giovane principe Luigi Eugenio Napoleone, figlio unico di Napoleone III, trafitto dalle lance assegai (lance corte) degli indigeni nel 1879 nel lontanissimo Zululand.

Pubblicato il

23.09.2005 04:30
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