Un'economia di guerra in tempo di pace

Questa volta non si è dato al morbo un marchio ultraterreno, di punizione per le nostre malefatte (con l’Hiv si parlava ancora di punizione divina per i malcostumi sessuali). Si è secolarizzato anche il virus. Le punizioni secolari sono però più tremende. È il rapporto tra il numero di contaminati, di vittime, di durata della pandemia e le perdite per il Pil (crescita economica) che si fa emergere ovunque con altrettanta drammaticità. Appare quasi disumano o cinico, ma è reale. È il crollo di Borse e commercio internazionale di cui ci si martella ogni giorno, con la paura per un’altra sorta di epidemia forse più distruttiva: la recessione economica generalizzata che toglie anche futuro. È la pretesa razionalità economica, quella del mercato e della finanza, che va a picco e scoperchia l’irrazionalità di troppe credenze date per dogmi negli ultimi quarant’anni.
Vorremmo credere a quella poetessa (Mariangela Gualtieri: Nove marzo duemilaventi) che scrive: “C’è dell’oro, credo, in questo tempo strano/ forse ci sono doni/ pepite d’oro per noi”. Lo scrive, capovolgendo il modo di sentire prevalente, intriso di paura e concitazione, in una densa poesia. “Più delicata la nostra mano/starà dentro il fare della vita/adesso sappiamo quanto è triste/stare lontani un metro”. Conclude, tra simbolo e realtà, con un fondo di fiducia nell’intelligenza dell’uomo. Anche dal male (il devastante morbo) si può trarre qualche pepita di bene, di rinsavimento, di cambiamento nei modi di essere e di fare. Vorremmo crederlo anche per l’economia e la politica.


Qualche rinsavimento forzato accade. Dopo averlo tanto oltraggiato e sminuito perché demolitore del libero mercato, luogo dello spreco e dell’incapacità, ostacolo al profitto dei privati per sue attività e regole, si è dovuto riscoprire lo Stato come ultima ancora di salvezza; riemerge il servizio pubblico (ospedali) per la funzionalità e la dedizione; riappare la solidarietà, sostituita nella politica dall’astio alla socialità e dalla esaltazione della responsabilità individuale, come la necessaria “altra mano”. Forse ne uscirà qualche voglia di mutamento di sistema. O almeno un’opportunità per riflettere su troppi peccati sociali e sul senso della vita.


La crisi economica rimarrà e sarà particolare. Non possiamo evitare di dircelo. Diversa da una crisi sistemica, come quella del 1929 o quella del 2008, nate da eccessi speculativi nella sfera finanziaria; nei due casi, un anello della catena degli impegni reciproci salta brutalmente (Lehman Brothers) e il fallimento si allarga per contagione rapida ai creditori successivi. La crisi si scatena in maniera quasi improvvisa ed è in un secondo tempo che il crollo dei mercati finanziari e la scomparsa del credito, come pure le perdite accumulate, si estendono con i loro effetti negativi sull’economia reale. Gli effetti della crisi del coronavirus sono di altra natura. Toccano diretta-mente l’economia reale nei suoi flussi di attività e di produzione e si estendono da un’impresa all’altra, da un settore all’altro. È come il virus, difficile fermarli. Comunque sempre condizionati da come si muove, in tempi certamente diversi, tutta la catena degli scambi internazionali. Non è tanto la moneta o il credito che sono in causa. È l’attività economica stessa, con tutto ciò che comporta. Spetta ai governi prendere le redini. Con una questione più semplice da porre che da risolvere: come organizzare in tempo di pace un’economia di guerra.

Pubblicato il

26.03.2020 16:14
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