L'editoriale

Se non vi sarà un inaspettato dietrofront del Consiglio federale, dal 1° giugno il divieto di importare e lavorare amianto in Svizzera verrà allentato. Questo per soddisfare gli appetiti di una lobby, che ha preteso e ottenuto un adeguamento normativo che introduce una nuova eccezione quando in gioco vi sono «ragioni estetiche»: si tratta in particolare di consentire il restauro di parti di edifici o monumenti costruiti con una roccia particolare (la serpentinite) che può contenere dell’amianto (servizio allegato). Invece di pensare all’eliminazione di tali manufatti, come la logica suggerirebbe, ci si adopera per la loro conservazione, cioè per il mantenimento di un’innegabile fonte di pericolo per i lavoratori e la popolazione. Il tutto con la “benedizione” della Suva: semplicemente vergognoso!

 

Sia chiaro, l’allentamento del divieto non spalanca le porte ad un uso massiccio e diffuso dell’amianto, ma rappresenta un brutto segnale, perché è la negazione degli sforzi di prevenzione, di tutela della salute pubblica e di bonifica che sono stati fatti a partire dalla messa al bando nel 1990. È un cambiamento di rotta inutile, illogico e dannoso sia per l’uomo sia per l’ambiente. Ma anche un atto di arretramento culturale, sulla scia di quello compiuto la scorsa estate da Donald Trump con la decisione di (ri)legalizzare negli Stati Uniti l’utilizzo dell’amianto nell’edilizia, facendo la gioia dell’industria d’esportazione russa (la prima al mondo, davanti a Kazakistan e Cina) che sui sacchi d’amianto stampa ormai la sua immagine con la scritta “approvato da Donald Trump, 45esimo presidente Usa”.
Pur facendo molte concessioni all’industria del cemento-amianto, che grazie alle deroghe ha potuto continuare a usare l’amianto ben oltre la messa al bando ufficiale (è lo stesso ex patron dell’Eternit Stephan Schmidheiny ad aver affermato di essersi «messo d’accordo» col Consiglio federale, come risulta dagli atti del processo italiano), la Svizzera si vanta tuttora di essere stata tra i primi paesi in Europa a compiere questo passo. Ma a 30 anni di distanza, non sappiamo con precisione dove e quanto amianto ancora si nasconda negli edifici pubblici e privati, non sappiamo con esattezza quante persone sono state esposte e quante si ammalano e muoiono. E poi per le autorità giudiziarie non c’è nessun colpevole, per le vittime non c’è giustizia e solo una minoranza di loro ha accesso ai risarcimenti. In un simile contesto è semplicemente una follia anche solo immaginare di autorizzare l’uso di amianto, oltretutto semplicemente per ragioni «estetiche».


Particolarmente urtante è infine la posizione della Suva, l’assicuratore contro gli infortuni e le malattie professionali con la «missione» di «prevenire e ridurre le sofferenze» dei lavoratori che sulla questione dell’amianto continua a tenere un atteggiamento perlomeno ambiguo: mentre nei suoi opuscoli informativi mette in guardia sulla pericolosità delle rocce serpentiniti che «possono contenere elevate quantità di fibre di amianto», giudica l’allentamento del divieto una «via pragmatica» fintanto che «si adottano le misure di protezione» suggerite dalla stessa Suva. Una posizione contraddittoria e soprattutto fuorviante, perché veicola l’idea (cui in passato ricorreva l’industria del fibrocemento per cercare di occultare le evidenze scientifiche) che esista la possibilità di lavorare l’amianto in sicurezza. Una falsità assoluta, visto che non vi è una soglia di esposizione al di sotto della quale esso non è pericoloso.


Le misure di protezione sono essenziali perché comunque bisogna fare i conti con l’amianto che ancora ci ritroviamo e ci ritroveremo per decenni nell’ambiente. Ma questo non significa che ci possiamo permettere di aggiungerne dell’altro.

Pubblicato il 

30.01.19

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